
Autismo: cosa sapere per una diagnosi precoce
In Italia, si stima che circa una persona su cento abbia le caratteristiche dell’autismo. L’incidenza è maggiore nei maschi rispetto alle femmine mentre non ci sono sostanziali differenze tra le diverse etnie o aree geografiche.
Nonostante la sua diffusione, l’autismo è ancora poco conosciuto e spesso sulle caratteristiche e le cause di questa neuro diversità circolano ancora molte inesattezze.
Per prima cosa è importante sottolineare che il termine “autismo” rappresenta un’etichetta generica che racchiude al suo interno condizioni molto diverse per caratteristiche e per bisogno di supporto, che però hanno in comune un aspetto: uno sviluppo peculiare della capacità di interagire e stabilire relazioni con gli altri.
Le persone con autismo presentano generalmente difficoltà nell’interazione e nella comunicazione con la maggioranza di persone tipiche. Inoltre, presentano in genere una forte sensibilità da un punto di vista percettivo, particolarità nell’attenzione, e altri comportamenti, che possono risultare ripetitivi, stereotipati e non appropriati con le situazioni sociali.
Secondo la letteratura scientifica, l’aumento delle diagnosi di autismo degli ultimi trent’anni sarebbe il riflesso non tanto di un aumento dell’incidenza quanto dello sviluppo di una maggiore capacità diagnostica, che permetterebbe di riconoscere anche forme più lievi che in passato passavano inosservate. Poiché nella diagnosi di autismo vengono oggi comprese manifestazioni molto diverse, l’autismo viene definito uno “spettro”, come ci si riferisce alla presenza dei diversi colori nello spettro della luce.
Ad oggi, nonostante esistano numerosi ipotesi, alcune anche piuttosto fantasiose, le cause dell’autismo restano ancora sconosciute, anche se gli aspetti genetici sembrano avere un ruolo importante.
Sebbene l’autismo permanga per tutta la vita una diagnosi precoce e interventi mirati sono in grado di migliorare significativamente le capacità dei pazienti e la loro qualità di vita. La diagnosi di autismo, tuttavia, è spesso tardiva. La maggior parte delle persone autistiche viene diagnosticata dopo i quattro anni e, nei casi in cui la condizione appare meno severa e invalidante, all’inizio dell’età scolare; questo sebbene la maggior parte dei genitori riconosca la presenza di comportamenti particolari già prima dei due anni di vita del bambino – alcuni fin dalla nascita.
Le ragioni di questo ritardo sono molteplici. Da una parte, spesso i genitori, soprattutto se si tratta del primo figlio, tendono a minimizzare i segnali manifesti e a ricondurre i comportamenti atipici del bambino a questioni di tipo caratteriale o al fatto che spesso il parlare tardivo del bambino sia da ricondurre alla somiglianza con questo o con quell’altro parente. Di contro, poiché la valutazione si basa esclusivamente su parametri comportamentali, e prima di formulare una diagnosi certa è necessario integrare fonti d’informazioni differenti e osservare il bambino in diversi contesti, includendo la famiglia e la scuola, i pediatri di famiglia, a cui vengono affidati i primi dubbi da parte dei genitori, sono portati ad aspettare la “maturazione” del bambino.
Questo articolo vuole essere un aiuto in primo luogo per i genitori, ma anche per i nonni e gli insegnanti che, potendo generalmente osservare per un tempo rilevante i bambini, in presenza di una serie di sintomi, possono attivarsi per chiedere aiuto.
La prima cosa da sapere è che gli indicatori dell’autismo variano sulla base dell’età dei bambini e normalmente si differenziano in indicatori precoci, ravvisabili già a partire da un anno, e ulteriori segnali identificabili a partire dai due anni in poi.
Gli indicatori precoci sono più difficili da rilevare anche perché spesso si manifestano non come comportamenti atipici ma come assenza di comportamento. I primi comportamenti che in genere osservano i genitori sono una sorta di apparente sordità (ad esempio il bambino non si volta se chiamato, ma reagisce, a volte anche in maniera molto forte, ad altri stimoli uditivi) e il ritardo nel cominciare a parlare. A volte, invece, il primo sviluppo appare del tutto adeguato, e poi subisce una sorta di “arresto” o, addirittura, il bambino può perdere delle acquisizioni precedenti. Generalmente entro i due anni solo specialisti formati ed attenti riescono a formulare una diagnosi poiché i primi segni riguardano anomalie qualitative, spesso sfumate, del comportamento.
A partire dai due anni le differenze nelle abilità sociali e comunicative appaiono più marcate e cominciano ad evidenziarsi anche alcuni comportamenti ripetitivi.
In alcuni casi, la prima valutazione, se fatta precocemente, non dà luogo ad una diagnosi, ma fornisce indicazioni ai genitori affinché si possa lavorare prima dei tre – cinque anni per ridurre l’impatto delle caratteristiche del bambino sullo sviluppo dell’interazione sociale reciproca.
Di seguito sono indicati alcuni comportamenti o atteggiamenti che, se presenti in modo continuativo, possono essere indice di un problema. Sii particolarmente vigile e attento quindi se dopo i due anni noti in tuo figlio/a i seguenti sintomi:
• disinteresse per il mondo circostante e attenzione assorbente e perseverante nei confronti di oggetti o routine
• predilezione a giocare da solo anche in presenza di altri bambini
• tendenza a non rispondere se chiamato per nome
• utilizzo dei giochi in modo ripetitivo e poco creativo (per esempio mettere in fila dei giocattoli, staccare e attaccare ripetutamente due pezzi delle costruzioni, riempire e svuotare di continuo il cesto dei giochi)
• sviluppo tardivo del linguaggio e presenza di particolarità nel tono, ritmo o volume della voce
• difficoltà a comprendere istruzioni, indicazioni, comandi e a esprimere i propri desideri
• utilizzo “strumentale” delle persone (per esempio afferrare la mano della mamma perché la stessa gli prenda un oggetto a cui lui non arriva)
• particolarità nel rapporto interpersonale, volto quasi sempre a richiedere e raramente a mostrare o condividere
• attaccamento eccessivo ad oggetti o giochi
• predilezione per cibi particolari (cibi di un solo colore, cibi di una determinata consistenza, di una particolare marca…)
• particolare sensibilità ad alcuni stimoli sensoriali (sirene, campanelli, cigolii)
• particolare capacità di leggere, ricordare numeri o lettere non sempre in linea con l’età
• movimenti ripetitivi delle mani e delle dita
• difficoltà nelle transizioni (passare da un luogo ad un altro o da un’attività ad un’altra)
Nessuno di questi comportamenti da solo è indicativo, soprattutto se presente saltuariamente, mentre se ti capita di osservarne un numero consistente con una certa regolarità e frequenza, allora forse è meglio chiedere un consulto.
Può essere utile trascorrere del tempo osservando tuo figlio/a insieme ad altri bambini della stessa età per vedere se noti differenze particolarmente significative nel livello di sviluppo delle sue capacità e abilità.
Quello che ti consiglio è di evitare allarmismi, ricordando che i non specialisti non dovrebbero lanciarsi in interpretazioni diagnostiche, ma se hai dei dubbi o preoccupazioni sul comportamento di tuo figlio (quasi tutti i genitori di bambini autistici ne hanno avuti prima dei due anni) fidati del tuo istinto e chiedi aiuto.
Ricordati che con una diagnosi precoce e quindi con interventi mirati di natura comportamentale e cognitiva è possibile ottenere progressi significativi sul piano cognitivo, emotivo e sociale.
Spero di aver contribuito a fare un po’ di chiarezza sull’autismo e soprattutto sulla necessità di essere tempestivi nella diagnosi.
Se vuoi saperne di più contattami: nel mio studio è attivo il servizio LINEA AUTISMO per rispondere a tutti i tuoi dubbi. Lavoriamo in team con un’equipe di specialisti formati per la diagnosi e l’intervento.
Per approfondire:
Vicari, S., 2016, Nostro figlio è autistico. Guida pratica per i genitori dopo la diagnosi. Trento, Erickson
Notbohm, E., 2015, 10 cose che ogni bambino con autismo vorrebbe che tu sapessi. Trento. Erickson
Bernasconi G., Lombardoni C. &Rudelli N. (2016) Campanelli Verdi e Rossi: screening precoce nei disturbi dello spettro autistico per bambini da 0 a 3 anni. Casagrande Editore: Svizzera Bellinzona

Perché se vuoi perdere peso devi smettere di metterti a dieta
Stare a dieta fa ingrassare.
Sembra un paradosso ma con un po’ di sano spirito di osservazione puoi verificare tu stesso questa affermazione. Se ti guardi in giro noterai che, generalmente, le persone che stanno a dieta sono quasi sempre in sovrappeso o alternano periodi in cui raggiungono un peso forma a momenti in cui tornano a lottare con l’ago della bilancia.
Questo avviene perché tutte le diete funzionano ma nessuna è veramente efficace. Tutte le diete cioè consentono di raggiungere buoni risultati, che però generalmente non vengono mantenuti nel tempo.
Pensa che, negli ultimi dieci anni, in Italia circa il 10% della popolazione è obesa e circa la metà è in sovrappeso, eppure mai come in questi anni le diete sono seguitissime tanto che ne esistono di ogni tipo e per tutti i gusti.
Gli scarsi risultati delle diete vanno ricercati in una serie di meccanismi psicologici che si generano stando a dieta e che fanno naufragare l’obiettivo di dimagrire.
Se stai leggendo questo articolo probabilmente anche tu sei interessato a dimagrire o hai qualcuno molto vicino a te che combatte con il peso: ebbene, in questo caso, la prima cosa che devi ricordarti se vuoi raggiungere il tuo peso forma è questa: se ti neghi il cibo, il cibo diventerà la tua ossessione.
Questo è un principio psicologico che dovrebbe essere noto a tutti quelli che si occupano di nutrizione ma che spesso viene ignorato. La maggior parte delle diete, infatti, si basa sulla restrizione calorica o sulla limitazione o peggio eliminazione di molti cibi. Ovviamente i cibi proibiti coincidono quasi sempre con quelli più desiderati e gustosi e, se ci fai caso, chi sta a dieta è spesso un grande amante del cibo e del piacere a esso associato.
Se anche tu hai provato alcune diete avrai sperimentato questo copione: inizi a mangiare meno, a evitare alcuni cibi e così facendo riesci a perdere peso. Ti sforzi, tieni duro, esercitando un grande controllo su te stesso ma le privazioni a cui ti sottoponi e la continua negazione del piacere prima o poi presentano il conto. Basta uno sgarro, un momento di sconforto o semplicemente una tentazione più grande delle altre e la perdita di controllo è dietro l’angolo.
Generalmente all’inizio della dieta i buoni risultati raggiunti ti spingono a rimetterti in carreggiata dopo i primi cedimenti ma, a lungo termine, il regime restrittivo diventa faticoso da sopportare, i cibi banditi dal menù appaiono sempre più desiderabili e la lotta continua tra piacere e dovere ti fa capitolare; cominci a lasciarti andare sempre più spesso ad abbuffate luculliane in cui puoi finalmente assaporare ciò che ti sei negato da tempo o semplicemente diventi vittima del cd effetto “chissenefrega”, che ti spinge a non seguire più le faticose limitazioni della dieta. Il peso ricomincia a salire, la volontà vacilla e i chili persi vengono facilmente ripresi. Ti demoralizzi, cominci nuovamente a mangiare senza alcuna regola, ti lasci andare fino alla prossima dieta miracolosa che, con le sue promesse, farà sì che il ciclo perverso ricominci da capo.
Di solito ciò che differenzia le persone è solo il tempo in cui riescono a mantenere il controllo: alcuni ci riescono per mesi, o anche per un anno o due, altri per pochissimo, ma tutti, nel periodo in cui sono a dieta, soffrono per ciò che non possono avere, idealizzando il cibo come se fosse un amore proibito che non è possibile vivere.
Se questo normalmente è il copione che si osserva in chi si mette a dieta, non vuol dire che non sia possibile agire diversamente e riuscire a perdere peso utilizzando altre strategie.
Se questo è il tuo obiettivo, voglio darti un’indicazione che potrà sembrarti strana ma che si basa su un principio valido in molti ambiti della vita: l’unico modo per resistere a un piacere è concederselo. Se lotti con il cibo alla fine cederai, se invece te lo concedi, potrai rinunciarvi.
Ora ti chiederai come è possibile tradurre questa massima nel campo dell’alimentazione, ebbene ti rispondo subito: se vuoi perdere peso devi mangiare ciò che ti piace. Sì, hai capito bene, se vuoi dimagrire devi mangiare le cose che ti piacciono: concedendoti nei tre pasti (colazione, pranzo e cena) le cose che ami di più e soprattutto evitando di mangiare fuori pasto.
So che stai pensando che per te questa regola non funziona perché finiresti sempre a mangiare cibi poco salutari come fritture, dolci, pizze ed altre leccornie simili. Devi sapere invece che esiste un principio, chiamato della sazietà sensoriale specifica, per cui un certo alimento per quanto gustosissimo, se mangiato con una certa regolarità o in quantità eccessive dopo un po’ non ci soddisfa più. Il corpo infatti richiede spontaneamente alimenti diversi e spesso più salutari. Quello che invece ci fa veramente rimanere dipendente da alcuni cibi, facendoceli percepire come irresistibili,è il nostro tentativo continuo di astenerci dal loro consumo. Se inizi invece nei tre pasti ad assecondare il tuo palato vedrai che i cibi proibiti perderanno parte della loro desiderabilità e comincerai a mangiare in modo più controllato. Questo ovviamente accade a meno che non ci siano disturbi alimentari e in quel caso il lavoro da fare su di te deve necessariamente essere guidato da uno specialista.
Mi rendo conto però che, anche se non soffri di un disturbo alimentare, l’indicazione che ti ho appena dato non è sempre applicabile: se hai problemi di salute, per esempio, è probabile che tu debba eliminare alcuni cibi che ami (per esempio sei diabetico e non puoi mangiare i dolci); in questo caso il suggerimento è questo: trova comunque il modo di inserire nei pasti alimenti a te graditi.
Sperimenta nuovi sapori, aumenta la varietà dei cibi che mangi alla ricerca di cose che ti soddisfino, cerca di far sì che il piacere non manchi mai sulla tua tavola. Aiutati curando anche il contesto in cui mangi, prenditi il tuo tempo e fai diventare almeno un pasto della tua giornata un rito piacevole. Questo ti eviterà di cercare trasgressioni alimentari perché ti sentirai appagato da ciò che metti nel piatto.
Una volta che avrai assecondato il principio del piacere potrai iniziare a esercitare un controllo consapevole sulla qualità degli alimenti.
La qualità è la madre del piacere e in materia di alimentazione è in grado di fare la differenza. La qualità ci appaga, ci induce automaticamente a limitare le quantità dei cibi (anche per questioni economiche) ed è quasi sempre salutare.
Se vuoi perdere peso e mantenerlo, scegli con cura la provenienza dei cibi, evita prodotti lavorati e processati, che hanno perso il sapore originario delle materie prime, segui la stagionalità e,soprattutto, impara a prepararti le pietanze che porti in tavola.
Se pensi che questi consigli siano più complessi da seguire rispetto a una dieta, ti dico che è vero: raggiungere il proprio peso forma e mantenerlo implica spesso l’acquisizione di una serie di buone abitudini che richiedono all’inizio costanza, impegno e voglia di mettersi in gioco. Ti assicuro, però, che lo sforzo che farai non è nulla se paragonato alle frustrazioni legate ai tentativi fallimentari di dimagrire e alla sensazione di scarso benessere che hai finora sperimentato.
Cambiare il tuo approccio con il cibo e cominciare a curare la qualità della tua alimentazione, invece, ti porterà grandi benefici a breve e a lungo termine, regalandoti forza, energia e probabilmente un umore migliore e una maggiore fiducia in te stesso.
Spero che questo articolo ti abbia convinto e mi auguro di cuore che intraprenderai questa strada.
Ti chiedo di condividere quello che ho scritto se pensi che possa essere di aiuto a qualcuno che conosci.
Se però senti di aver bisogno di un aiuto per gestire, da un punto di vista psicologico, il tuo rapporto con il cibo o il controllo del tuo peso contattami e sarò felice di aiutarti a intraprendere un percorso di cambiamento.
Per approfondire:
Bergami, L, Bossi, M, Ongaro F, et altri, 2014 (a cura di) Giorgio Nardone e Elisa Valteroni. Dieta o non dieta? Per un nuovo equilibrio tra cibo, piacere e salute. Firenze, Ponte alle grazie.
Nardone G., 2007La dieta paradossale. Sciogliere i blocchi psicologici che impediscono di dimagrire e mantenersi in forma, Firenze, Ponte alle Grazie.

Tre stratagemmi per superare la paura di parlare in pubblico
La paura di parlare in pubblico è in cima alle hit parade di tutte le fobie esistenti e, da alcune ricerche fatte, sembrerebbe addirittura che lasci il primo posto sul podio solo alla paura della morte, posizionandosi come seconda tra i timori più diffusi delle persone.
Se hai paura di parlare in pubblico può darsi che tu abbia in generale difficoltà a esporti a causa della tua timidezza, oppure può essere che il tuo problema si manifesti solo quando devi parlare in un gruppo che supera le tre persone o, ancora, che il terrore ti assalga unicamente di fronte a un’aula o una platea gremita; ebbene, nonostante in queste situazioni ci siano delle differenze (che rendono la paura riconducibile a fattori diversi) le risposte a livello emotivo e fisiologico saranno simili, sebbene possano variare per intensità da persona a persona.
Le nostre modalità di funzionamento emotivo e fisiologico, infatti, sono uguali per tutti: di fronte a qualcosa che percepiamo come temibile, il corpo reagisce liberando adrenalina e noradrenalina, due neurotrasmettitori che a loro volta provocano sudorazione, accelerazione del ritmo cardiaco, respirazione rapida, crampi allo stomaco, bisogno di deglutire, secchezza della bocca, tensione muscolare.
Se provi di frequente queste sensazioni e hai deciso che vuoi superare la paura di parlare in pubblico, ti suggerisco di mettere in pratica i tre stratagemmi indicati in questo articolo: due puoi applicarli quando ti trovi nella situazione temuta e non riesci a dominare le tue emozioni, il terzo invece puoi utilizzarlo per fare pratica e prepararti a gestire tutte quelle circostanze che potrebbero crearti disagio.
Il primo suggerimento che ti do è quello di smettere di interpretare i tuoi segnali fisici come sintomi di difficoltà o peggio ancora di incapacità;avere la gola secca, il cuore che batte, la sudorazione aumentata non vuol dire che fallirai nella tua performance: che a spaventarti sia una riunione di lavoro, una conferenza, la presentazione di un progetto, inizia a pensare che tutti questi segnali fisici che percepisci non sono altro che i tentativi del tuo corpo di prepararti al meglio. Devi sapere che la maggior parte delle volte è proprio l’ascolto ossessivo di questi segnali e il tentativo di controllarli a fare andare le persone in tilt.
Ti svelo un segreto: provare a calmarti, come molti suggeriscono, respirando profondamente e lungamente quando ti trovi in queste situazioni, non fa altro che peggiorare il tuo stato e la tua agitazione perché rischia di farti andare in iperventilazione, aumentando la sensazione di non riuscire a respirare.
Il primo stratagemma che puoi utilizzare per provare a riportare i tuoi parametri fisiologici alla normalità è quello di prenderti qualche minuto prima della tua performance e seguire la tecnica del soffiare sulle candeline. Sì, hai capito bene, devi proprio immaginare di avere davanti a te una grandissima torta piena di candeline accese e, buttando fuori più aria che puoi, devi provare a spegnerle tutte.Ripetendo questo esercizio per qualche minuto, svuoterai i polmoni, scaricherai le tensioni dalle spalle, e sarai meno teso quando dovrai effettuare la tua performance.
E veniamo ora al momento più importante: sei davanti al tuo pubblico (ampio o ristretto che sia) e la tua testa comincia a rimuginare: una voce dentro di te ti dice che fallirai, che dimenticherai ciò che devi dire, che farai una brutta figura, che gli altri si accorgeranno della tua incompetenza, anzi pensi proprio che qualcuno, nonostante il tuo tentativo di mostrare calma, già si sia accorto della tua difficoltà…che fare?
In questi casi ti consiglio di seguire la cosiddetta tecnica del termometro. Quando sarai davanti al tuo pubblico, quello che dovrai fare è valutare, come se avessi una sorta di termometro interno, lo stato della tua agitazione e delle tue emozioni: se senti che rimangono a un livello accettabile e non invalidante, allora inizia pure a parlare, se invece ti accorgi che sono altissimi e stai per perdere il controllo, devi dichiarare in modo carino il tuo perturbante segreto. Prima di una presentazione potresti dire”oggi parliamo di un argomento un po’ ostico, è la prima volta che lo illustro e si sa, le prime volte generano sempre un po’ di emozione”, oppure se ti trovi in una riunione, quando viene il tuo turno di parlare puoi esordire dicendo “avete fatto tutti degli interventi molto interessanti, spero di essere all’altezza e che l’emozione non mi giochi brutti scherzi.”
Dichiara la tua difficoltà ed essa scomparirà. In questi casi infatti ciò che fa più paura è che gli altri si accorgano della nostra agitazione, soffriamo per il fatto che non riusciamo a celarla, al contrario se la dichiariamo la strada tornerà a essere in discesa. A ciò si aggiunge il fatto che iniziare un’esposizione dichiarando un proprio limite, ci fa apparire più simpatici e predispone bene l’uditorio.
E veniamo all’ultimo e più importante consiglio da mettere in pratica. Se hai paura di parlare in pubblico devi assolutamente sviluppare le tue abilità di raccontare e di esporre contenuti.
Spesso chi non ama parlare in pubblico, infatti, non è abile in questo: o perché è introverso o semplicemente perché ama la sintesi e non indugia nei dettagli e nelle descrizioni. Se vuoi migliorare, invece, la prima cosa da fare è diventare un bravo narratore: esercitati con tuo marito, con tua moglie, con i tuoi genitori, intervieni più spesso nelle discussioni con gli amici, fai in modo che qualunque cosa tu debba raccontare (un problema di lavoro, un film visto al cinema, l’ultima vacanza fatta) diventi un pretesto per esercitarti nell’esposizione. Usa parole appropriate, esprimi le emozioni che hai provato o che hanno provato le persone a cui si riferisce il tuo racconto, riporta i dettagli, colorisci le situazioni con battute ma, soprattutto, osserva mentre parli le reazioni che susciti negli altri. Vedere l’interesse o il disinteresse negli occhi di chi ascolta è il miglior feedback per capire come stai andando, se risulti noioso o interessante.
Ricorda che al pari di altre abilità anche il parlare in pubblico migliora con la pratica e l’esercizio costante.
Ti invito pertanto a seguire i miei consigli e, se vuoi affrontare in modo mirato le tue paure, puoi contattarmi e lavoreremo insieme per renderti più sicuro e per sviluppare le tue capacità di esposizione.
Bregantin, D., 2011 Corso rapido per parlare in pubblico. Firenze, Giunti editore.
Collard, G., 2011 L’arte di esprimersi in pubblico. Milano. San Paolo
Carnegie, D. 2017, Come parlare in pubblico e convincere gli altri. Milano, Bompiani.

Tre ingredienti fondamentali per far funzionare una relazione
Una relazione che funziona è quella in cui la coppia ha un rapporto soddisfacente e, per la maggior parte del tempo, appagante. Questo non vuol dire aspettarsi solo rose e fiori da chi ci sta accanto ma avere comunque presente che i benefici del condividere la propria vita con qualcuno devono superare le difficoltà e le incomprensioni, altrimenti come si dice “il gioco non vale la candela” e tanto vale rimanere single.
Se in questo momento vivi un periodo di alti e bassi nella tua relazione di coppia o se sei semplicemente interessato a migliorare il rapporto con il tuo partner ti invito a leggere i miei consigli.
Un primo suggerimento che ti do è quello di evitare di lamentarti. Se la tua vita di coppia non è come vorresti, lamentarti di continuo con gli amici o peggio ancora con i tuoi familiari non contribuirà certo a farla andare meglio. A meno che tu non debba chiedere aiuto per un problema serio (abusi, maltrattamenti, violenze psicologiche, problemi di salute) cosa che ti invito a fare senza indugio, evita di parlare di ciò che non va nel tuo rapporto, al di fuori della coppia. Le lamentele, che utilizziamo come sfogo pensando poi di stare meglio, in realtà servono solo a cristallizzare le situazioni, ingigantendole e facendoci sentire frustrati, impotenti e privi di energie. La lamentela raramente ha effetti sulla realtà che ci circonda, è quindi un comportamento senza scopo, che ogni giorno ci ricorda che qualcosa non va ma che non contribuisce in alcun modo a migliorare la situazione. Se dunque vuoi cambiare le cose che non ti piacciono, evita di lamentarti!
Questo non vuol dire negare i problemi ma sostituire alle parole vuote le azioni. Lavorando con diverse coppie ho potuto osservare che smettere con le recriminazioni, gli sfoghi ha effetti molto positivi: prova per una settimana ad astenerti dal commentare i difetti e le mancanze del tuo partner con chi ti sta vicino, vedrai che ti sentirai meno avvilito, stanco e scoraggiato del solito.
Questo non significa che devi passare sopra qualsiasi cosa e astenerti dall’evidenziare ciò che non va al tuo compagno/a. Le coppie che funzionano non evitano di dirsi le cose che non vanno e di esprimere all’altro i propri desideri e bisogni, semplicemente hanno imparato a farlo nel modo giusto e, questo, fa la differenza.
Permettimi quindi di introdurti al secondo ingrediente fondamentale in una relazione: la comunicazione.
Devi sapere, infatti, che non sono tanto i contenuti che ci scambiamo a rendere le nostre conversazioni costruttive e serene o al contrario velenose e improduttive quanto la forma che assume la nostra comunicazione.
I modi di comunicare e le strategie per relazionarsi costruttivamente con l’altro sono tanti e qui non possiamo certo esplorarle tutte, io mi limiterò a evidenziarti gli errori più comuni che si commettono nel dialogo di coppia e che, da soli, sono in grado di avvelenare qualunque conversazione suscitando irritazione e insofferenza e distogliendo l’attenzione dai contenuti.
Se vuoi far fallire una discussione comincia con il puntualizzare ogni cosa che l’altro dice, anche ripetutamente, facendo in modo di non lasciargli mai l’ultima parola, precisando ogni concetto o emozione che esprime. Ricordati poi di elencare le sue colpe, i suoi sbagli come se fosse sotto processo e dovesse difendersi da un’accusa ma, soprattutto, non dimenticare di rinfacciare ciò che hai fatto o fai sempre per lui/lei. È importante in questo caso che tu assuma pienamente il ruolo di vittima facendo passare l’altro/a come un terribile aguzzino. Infine, sali idealmente sull’altare delle tue ragioni e comincia a predicare, mostrando al tuo partner che ciò che dice, che fa o ciò in cui crede è sbagliato e ingiusto o addirittura immorale secondo leggi universali. Se seguirai attentamente questi passaggi riuscirai a far fallire qualunque conversazione in tempi relativamente brevi.
Ti invito quindi, la prossima volta che ti troverai a discutere, a prestare attenzione alla tua comunicazione e a vedere in quale tra queste trappole sei solito cadere: sono sicura che già riuscire a evitarle ti aiuterà a confrontarti in modo più costruttivo.
In particolare, mi permetto di darti un consiglio: comincia ogni dialogo di coppia con una domanda, chiedi piuttosto che affermare, verifica piuttosto che sentenziare e ricorda che inserire queste tre paroline magiche “che ne pensi?” permette di iniziare ogni discussione, anche la più spinosa, in modo più disteso perché predispone bene l’interlocutore.
E veniamo ora all’ultimo consiglio che, in base alla mia esperienza da terapeuta, è quello più importante: se vuoi il meglio devi essere il meglio! Vuoi una relazione migliore, diventa un partner migliore. Se proprio dovessi darti un’indicazione ti direi di diventare quel partner con cui tutti vorrebbero stare. Per cui cura il tuo aspetto, coltiva i tuoi interessi, renditi amabile e, soprattutto, non aspettare che la tua felicità derivi dal comportamento del tuo compagno o della tua compagna. Solo le persone complete riescono a stare bene insieme, se hai bisogno di qualcun altro per sentirti completo non sarai mai veramente felice. Se vuoi una coppia migliore, lavora su te stesso e vedrai che anche il rapporto migliorerà.
Mi auguro che questo articolo ti sia stato di aiuto. Se però sei in un momento difficile con il tuo partner e vuoi un supporto o se entrambe volete iniziare un percorso di coppia per risolvere i vostri problemi contattatemi e sarò felice di aiutarvi.
Per approfondire
Nardone G, 2005 Correggimi se sbaglio. Firenze, Ponte alle Grazie.
Zeig, J.K., Kulbatski, T., Lovisolo, A., 2012 I dieci comandamenti della coppia. Firenze, Ponte alle Grazie.
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Tre cose che forse non sai sulla rabbia
La rabbia è una delle sei emozioni di base che fanno parte del corredo emotivo di ogni essere umano, viene sperimentata in ogni parte del mondo, in ogni fase del ciclo di vita (dall’infanzia alla vecchiaia) e si contraddistingue per indicatori non verbali che la rendono riconoscibile su ogni volto umano. Per dirla in modo più semplice: tutti su questa terra proviamo rabbia e sebbene ciascuno di noi la esprima con livelli di intensità diversa, siamo generalmente in grado di riconoscerne i segni nell’altro.
Il fatto che la rabbia faccia parte delle sei emozioni universali ci fornisce un’informazione fondamentale: la sua comparsa è stata funzionale alla sopravvivenza dell’essere umano.
La rabbia è legata, infatti, al tema dell’interferenza: è un’emozione che nasce quando qualcosa o qualcuno interferisce con ciò che vogliamo fare o con ciò che ci aspettiamo. Possiamo quindi provare rabbia se il computer si blocca mentre stiamo lavorando, se qualcuno per strada ci passa davanti al semaforo, se ciò che avevamo programmato salta per un imprevisto, se siamo costretti a fare qualcosa che non ci piace, gli esempi possono essere infiniti.
Di fronte all’interferenza che non ci permette di raggiungere ciò che vogliamo, l’organismo si attiva, si carica di un surplus di energia che, in un’ottica evolutiva, dovrebbe essere utilizzata come forza ulteriore a nostra disposizione per raggiungere i nostri obiettivi.
Oggi però non siamo più nel Paleolitico e la maggior parte delle interferenze che incontriamo non sono ostacoli di carattere materiale (un albero caduto che ci impedisce di proseguire, una preda che corre troppo veloce, un nostro simile che ci ruba il cibo) quanto piuttosto impedimenti ai nostri piani, programmi o desideri, per cui l’attivazione provocata dalla rabbia non sempre ci è di aiuto e anzi rischia di stancarci mentalmente e toglierci lucidità.
Ciò nonostante anche oggi la rabbia ha una sua specifica utilità soprattutto quando diventa molto presente nella nostra vita.
La prima cosa che devi sapere se ti capita di sperimentare spesso questa emozione è che la rabbia porta con sé un messaggio che non puoi ignorare: la tua vita non va come vorresti, quello che hai o quello che fai non è in linea con ciò che desideri. Prendere coscienza di ciò è molto importante perché spesso proviamo rabbia e scattiamo per minime cose ma in realtà quello che abbiamo è un senso di insoddisfazione costante che fa da sottofondo alla nostra vita. È utile in questi casi fermarsi un attimo e capire cosa c’è che non va e soprattutto fare qualcosa per cambiare la situazione. Ricordati che c’è sempre qualcosa da fare: anche quando non possiamo cambiare gli eventi possiamo lavorare per cambiare il nostro atteggiamento e questo ci farà stare meglio fisicamente ed emotivamente.
Le persone che provano molta rabbia spesso non riescono a esprimere i propri bisogni o desideri, per timidezza o per paura del giudizio, e finiscono per essere troppo accondiscendenti con gli altri. Questo comportamento di eccessiva abnegazione però protratto nel tempo può rendere molto rancorosi e pieni di risentimento e contribuisce a far sentire, chi lo mette in pratica, incompreso dal mondo e vittima di ingiustizia.
La seconda cosa che forse non sai è che la rabbia può essere il riflesso di un’emozione più profonda che non riusciamo a esprimere, come la paura o più spesso il dolore. In questi casi la rabbia può rappresentare un’emozione di copertura che fintanto che è presente ci impedisce di risolvere un disagio emotivo sottostante. In caso di lutto, separazione, abbandono ma anche catastrofi naturali o incidenti spesso le persone provano rabbia per lungo tempo e questo gli impedisce di accedere al dolore, elaborarlo e farlo decantare. In questi casi lavorare sulla rabbia è fondamentale per evitare che la persona rimanga intrappolata nel malessere e non riesca a tornare a una vita soddisfacente.
Imparare a gestire la rabbia è, tra le competenze emotive, una delle più importanti. Questa emozione, infatti, se protratta nel tempo, è in grado di alterare i parametri fisiologici e può portare a conseguenze fisiche anche piuttosto serie, che rischiano di compromettere lo stato di salute.
Sicuramente sai che sfogare la rabbia non serve e anzi in alcuni casi contribuisce addirittura a mantenere il corpo in uno stato di attivazione che risulta dannoso. D’altra parte studi dimostrano che anche la repressione della rabbia porta con sé numerosi svantaggi, poiché la persona implode internamente e spesso finisce per somatizzare il disagio che non riesce a esprimere. Problemi all’apparato gastrointestinale e tensioni muscolari a carico di nuca, collo e spalle sono alcuni tra i problemi più frequenti della rabbia repressa.
Se non è salutare né sfogarsi né tenere tutto dentro, come bisogna comportarsi per fronteggiare questa emozione?
La terza cosa da sapere è che il modo più efficace per gestire la rabbia è incanalare la sua forza, farla defluire fino a che il suo potenziale distruttivo perde di potenza. Un utile strumento in questo senso è rappresentato dalla scrittura, effettuata secondo alcune regole di base.
Quello che puoi fare quando ti senti pieno di rabbia è scrivere delle lettere indirizzate all’oggetto della tua rabbia: non deve necessariamente essere una persona, puoi indirizzarle anche alla vita, al destino o a te stesso. L’indicazione è quella di scrivere di getto tutto quello che ti viene in mente senza prestare attenzione alla forma ed evitando di rileggere quanto scritto. Quando ti accorgerai che la rabbia comincia a scemare o che ti senti meno “carico”, smetti di scrivere, chiudi le lettere e riponile in un posto segreto.
Se riuscirai a fare questo esercizio con costanza e per un periodo di tempo significativo (uno o due mesi) otterrai dei benefici notevoli. La scrittura infatti, a differenza dello sfogo verbale, permette all’emozione di defluire e fissarsi sulla carta, lasciando la nostra mente più libera. A ciò si aggiunge l’effetto ristrutturante che i nostri pensieri subiscono quando vengono messi nero su bianco: la nostra percezione e le nostre credenze pian piano si modificano e riusciamo a vedere fatti e persone sotto una luce nuova.
Quando le tue sessioni di scrittura saranno terminate ti consiglio di distruggere tutte le lettere nel modo che preferisci (bruciale, strappale, buttale in un posto per te significativo), in questo modo compirai un atto finale dal significato liberatorio.
Spero che alla fine di questo articolo tu abbia imparato qualcosa in più sulla rabbia e su come gestirla. Voglio che tu sappia però che, in molti casi, riuscire a fronteggiare un’emozione che ha preso il sopravvento può essere difficile senza l’aiuto di una persona esperta che sappia guidarti.
Se pertanto ti accorgi che la rabbia è diventata un’emozione troppo presente nella tua vita o che hai dei momenti in cui, nonostante i tuoi sforzi, non riesci a controllarla, chiedi aiuto. Se vuoi puoi contattarmi e lavoreremo insieme per ristabilire il tuo benessere emotivo.
Per approfondire
Thich Nhat Hanh, 2002 Spegni il fuoco della rabbia. Milano, Oscar Mondadori.
Ekman, P., 2003 Te lo leggo in faccia. Torino, Amrita.
Travis, C., 1989 Anger. The misunderstood emotion, Touchstone Books.
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Tre cose da sapere sulla simpatia
Piacere piace.
Non è un gioco di parole ma una verità: essere apprezzati dagli altri (che è cosa diversa dal pretendere di piacere a tutti) è un bisogno fondamentale di ogni persona. Sentirsi apprezzati, infatti, facilita i contatti relazionali, favorisce l’espressione delle proprie idee, ha un impatto positivo sull’umore e, sembrerebbe, anche sulla salute.
Per tanto tempo la simpatia è stata associata con l’estroversione, ed è stata quindi considerata una caratteristica innata e poco modificabile.
Oggi sappiamo che, sebbene le persone estroverse risultino simpatiche con più facilità, in realtà ciò che determina l’apprezzamento degli altri rendendoci benvoluti è legato a una molteplicità di aspetti, che è possibile potenziare e sviluppare.
Se il tuo obiettivo quindi è quello di risultare più simpatico ti suggerisco di seguire i tre consigli che seguono e di cominciare ad applicarli da subito.
Ti sembrerà strano ma per risultare più simpatico devi smetterla di concentrarti su te stesso e spostare la tua attenzione sugli altri. Questo vuol dire che continuare a preoccuparti di quello che fai, di come appari, delle parole che dici non ti aiuterà ma contribuirà soltanto a farti sembrare rigido, impostato e poco naturale; al contrario focalizzarti sui tuoi interlocutori risulterà una strategia ottimale.
Ma cosa vuol dire questo in concreto?
Un primo passo da compiere è, per esempio, iniziare a conversare su argomenti che sono graditi alle persone con cui entri in contatto.
Per sapere cosa piace al tuo interlocutore impara a osservare: presta attenzione a come si veste, a come parla, e ricorda che tutto ciò che sai su di lui (lavoro, amici, sport) è una preziosa fonte di informazione per scoprire i suoi interessi. Se poi si tratta di sconosciuti, la strada è davvero in discesa: presentati tu per primo e, dopo che anche l’altro si è presentato, inizia a fare qualche domanda; ricordati sempre di iniziare da domande generiche per non mettere in imbarazzo chi ti sta davanti ma, soprattutto, concentrati sulle risposte che le persone ti danno. Quando vedi che cominciano a dilungarsi, a entrare nei dettagli, a parlare con enfasi, probabilmente stanno toccando un argomento per loro interessante.
Pensa che questo stratagemma sembra fosse utilizzato anche dal Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt, passato alla storia come uno tra i più abili conversatori. Si racconta che il giorno prima di incontrare qualsiasi ospite Roosevelt trascorresse la notte studiando i temi e gli argomenti che pensava sarebbero stati interessanti per i suoi invitati e, così facendo, riusciva a intrattenere con loro conversazioni sempre piacevoli.
Capire cosa piace agli altri è però solo una parte di quello che ti viene richiesto: una volta che hai informazioni sugli interessi delle persone la cosa importante è ricordarle.
Questo significa che per essere simpatico devi sviluppare una buona memoria e iniziare a ricordarti cosa è importante per gli altri. Un amico ti presenta una ragazza che ti parla del suo amore per la pittura e del suo progetto di esporre i suoi quadri? Ricordalo e la prossima volta che l’incontrerai le chiederai notizie su questo; il tuo collega di ufficio ti racconta che tra un mese nascerà suo figlio? Fermalo dopo qualche tempo nei corridoi e chiedigli notizie. Sai che una persona del tuo palazzo sta attraversando un momento difficile perché ha la moglie malata? Un semplice “come va?”, anche in ascensore, dimostra che non ti sei dimenticato della sua situazione. Diventa bravo nel ricordare i dettagli che riguardano conoscenti, amici, e soprattutto interessati sinceramente alle persone e alle loro vite, vedrai che la gente comincerà a cercarti di più e a voler stare in tua compagnia.
Per piacere alle persone però non è sufficiente cambiare i comportamenti, a volte è necessario cambiare l’atteggiamento che abbiamo nei confronti degli altri, lo sguardo con cui osserviamo il mondo. Per esperienza ti dico che spesso chi non si sente simpatico è molto rigido (anche con con se stesso) e in generale è molto portato al giudizio e alla critica: cambiare questa modalità di percezione del mondo è importante per riuscire a vivere le relazioni interpersonali in modo più sereno e gratificante.
E veniamo all’ultimo ma importantissimo consiglio: per essere più simpatico e sentirti più apprezzato dagli altri metti in pratica questo piccolo stratagemma, da domani comincia a comportarti come se fossi già simpatico e benvoluto dalle persone che ti circondano. Pensaci, cosa faresti se questa fantasia fosse vera? Come ti relazioneresti con le persone che incontri ogni giorno e con gli sconosciuti?
Un suggerimento che ti do è quello di assumere alcuni comportamenti tipici delle persone che piacciono: correggi la tua postura (pancia in dentro e spalle in fuori), alza il tono di voce quando parli e, infine, sorridi più spesso.
Sorridi al mondo e vedrai che il mondo ti ripagherà.
Spero che questi tre consigli abbiano migliorato la tua situazione ma se senti di voler lavorare più a fondo sulle tue competenze relazionali e sulla tua capacità di interagire con gli altri, contattami e sarò felice di aiutarti a raggiungere il tuo obiettivo.
Per approfondire:
Napoleon Hill, 2004, Pensa e arricchisci te stesso. Torino, Gribaudi.
Massimo Piovano, 2007, Come sviluppare il proprio carisma. Milano, De Vecchi.
Dale Canergie, 2018, Come trattare gli altri e farseli amici. Milano, Bompiani.
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Tre cose che non sai sugli attacchi di panico
Gli attacchi di panico rappresentano una delle più importanti patologie esistenti: nel 2000, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il venti per cento della popolazione soffriva di questo disturbo (circa due persone su dieci) e, negli ultimi anni, le percentuali non sono certo diminuite.
In Italia gli ansiolitici, e in particolar modo le benzodiazepine, che rappresentano il trattamento elettivo per gli attacchi di panico, sono tra i farmaci più venduti della classe C (cioè quelli a carico dei cittadini).
Ti sembrerà strano ma la maggior parte delle persone che dice di soffrire di attacchi di panico, in realtà non soffre di questa patologia, ma ha una serie di sintomi che erroneamente vengono ricondotti al panico; per cui una delle cose più importanti da sapere rispetto a questo disturbo è come si manifesta e le caratteristiche che lo contraddistinguono.
Il panico è un devastante momento di “tilt” mentale e fisiologico, come un fulmine a ciel sereno, è relativamente breve e lascia tramortiti. Puoi dire di soffrire di attacchi di panico se hai provato uno o più dei seguenti sintomi: paura di impazzire, di perdere il controllo, tachicardia, tremori, nausea, sensazione di sbandamento, capogiri, sensazione di essere staccato dalla realtà o dal tuo corpo.
Se non hai episodi dirompenti, ma combatti con un senso di ansia costante che ti tiene sempre all’erta, non soffri di attacchi di panico.
Se ti alzi la mattina con un senso di oppressione al petto, come se avessi un macigno sulla bocca dello stomaco, non soffri di attacchi di panico.
Se hai delle crisi che durano anche una o due ore in cui piangi e stai male, non hai attacchi di panico.
Questi disturbi, che ti ho appena elencato, sono riconducibili ad altre categorie diagnostiche e vanno affrontati con strumenti e strategie in parte differenti da quelli che si utilizzano per gli attacchi di panico.
Spesso chi ha o ha avuto attacchi di panico vive nella paura che questi possano tornare e, proprio per sfuggirvi, è costretto a una vita piena di limitazioni, evitamenti, rinunce, una vita che, in alcuni casi, si trasforma in una prigione da cui sembra impossibile uscire.
Se soffri di attacchi di panico o vivi nella paura che questi possano tornare devi sapere che molte delle strategie che utilizzi per affrontare il tuo problema non solo non sono risolutive, ma spesso rappresentano proprio ciò che lo mantiene in vita e lo fa peggiorare.
Ti starai chiedendo come faccio ad affermare questo senza conoscerti, ebbene ti rispondo subito: nonostante ciascuno di noi sia una persona unica e irripetibile, i modi di reagire di fronte ad alcune situazioni problematiche, come il panico, tendono a essere per tutti simili e, purtroppo, disfunzionali.
Per cui se soffri di attacchi di panico o ne hai sofferto, mi aspetto che tu abbia sviluppato l’abitudine a chiedere aiuto o in modo generalizzato oppure solo ad alcune persone che hanno per te la funzione di angeli custodi (marito, figli, un amico o un’amica speciale); se sei un tipo più vergognoso è probabile che tu abbia imparato a prendere precauzioni (tenere un ansiolitico sempre in borsa ne è un esempio) o a organizzarti bene per avere sempre qualcuno a cui appoggiarti.
So per certo poi che se la situazione diventa per te particolarmente difficile o se non trovi nessuno pronto ad aiutarti, quello che fai, nove volte su dieci, è evitare e rinunciare e se, nonostante queste strategie, l’attacco si presenta, immagino che il tuo tentativo principale, almeno all’inizio, sia quello di provare a calmarti, di tenere sotto controllo le tue sensazioni, di concentrarti sulla respirazione, ecc.
Se da molto tempo hai questo problema penso che la tua vita sia ormai piena di rinunce e che il tuo spazio di autonomia si sia veramente ridotto.
Sappi allora che chiedere aiuto, direttamente o indirettamente, evitare le situazioni, tentare di controllare le tue reazioni sono comportamenti che generalmente peggiorano il tuo stato e aumentano sempre di più il tuo senso di incapacità e la tua frustrazione. Quasi sempre necessario che tu impari a fare qualcosa di diverso.
E veniamo allora alla terza cosa che devi sapere se soffri di attacchi di panico o se hai un familiare o un amico che ne soffre: questo è un disturbo da cui si può guarire completamente, non necessariamente in tempi lunghi e non necessariamente andando a scavare nel tuo passato per trovarne le origini.
L’idea che l’attacco di panico sia solo un sintomo e che copra sempre difficoltà più profonde, traumi infantili, passati difficili non è fondata ma soprattutto spesso non è di alcun aiuto per risolvere il problema del panico.
La terapia breve strategica da me utilizzata è una terapia con il 95% di efficacia per gli attacchi di panico (vuol dire più di nove casi su dieci risolti senza ricadute né spostamenti di sintomi) e per prima cosa ti aiuterà a liberarti da questo problema, lavorando per interrompere ciò che fai nel presente di disfunzionale e restituendoti quella libertà e autonomia che il disturbo ti ha tolto. Poi, come nel gioco delle matrioske, se eliminato il panico dovessero emergere altre difficoltà, potrai lavorare anche su quelle, ma sarai finalmente libero dal tuo problema.
Mi auguro che questo articolo sia riuscito a farti conoscere qualcosa in più sugli attacchi di panico e spero, soprattutto, che ti abbia convinto che, se soffri di questo problema, non devi per forza conviverci ma puoi liberartene una volta per tutte.
Se desideri farti aiutare o se hai bisogno di una consulenza su come aiutare un tuo familiare, contattami e lavoreremo insieme per raggiungere il tuo obiettivo.
Per approfondire
Caputo A., Milanese, R., 2017 Psicopillole. Milano, Ponte alle Grazie.
Nardone, G., 2016 La terapia degli attacchi di panico. Milano, Ponte alle Grazie.
Nardone G, 2003 Non c’è notte che non veda il giorno. La terapia in tempi brevi per gli attacchi di panico. Milano, Ponte alle Grazie.
Nardone G, 2003 Paura, Panico, Fobie Milano, Ponte alle Grazie.
Rovetto, F, 2003 Panico. Origini, dinamiche e terapie. Milano, McGraw – Hill.
Nardone G, 2000 Oltre i limiti della paura. Milano, Rizzoli.
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Tre domande per capire se hai bisogno di uno psicologo
Spesso mi viene chiesto in quale circostanze è necessario rivolgersi a uno psicologo, se ci sono dei sintomi specifici a cui prestare attenzione, dei campanelli d’allarme o delle situazioni particolari in presenza delle quali andare da un professionista è considerato indispensabile.
Prima di aiutarti a valutare se è opportuno fare questo passo, voglio chiarirti un concetto fondamentale: i motivi per cui puoi scegliere di consultare uno psicologo sono molteplici e i benefici che puoi ottenere dipendono molto dalla situazione in cui ti trovi.
A differenza di quello che normalmente si pensa, l’intervento di uno psicologo non sempre è legato a un disagio o a un disturbo.
Sebbene nell’immaginario collettivo sia il malessere la principale ragione che giustifichi una consulenza psicologica, in realtà, spesso il lavoro dello psicologo è legato alla promozione di una migliore qualità di vita.
Pensa a tutte quelle volte in cui quello che desideri è migliorare le tue prestazioni, prendere delle decisioni efficaci o avere maggiori soddisfazioni in uno o più ambiti della tua vita (studio, lavoro, sport, relazioni interpersonali); probabilmente in queste circostanze sei perfettamente in grado di cavartela da solo, ma con l’aiuto di un professionista potresti ottenere risultati migliori. Lo psicologo, infatti, può aiutarti ad ampliare i punti di vista disponibili per inquadrare una situazione o per fissare un obiettivo, può lavorare con te per sbloccare le risorse personali che non utilizzi al meglio e, soprattutto, può farti scoprire abitudini o copioni disfunzionali che limitano le tue prestazioni o le tue relazioni.
Immagina di voler vincere una gara: puoi scegliere di allenarti da solo o puoi affidarti a qualcuno che di professione fa l’allenatore. Non è sicuramente una scelta indispensabile ma può rivelarsi molto vantaggiosa, soprattutto se è una competizione a cui tieni particolarmente, se ci sono avversari preparati e se vuoi dare il meglio di te stesso.
Se dunque hai un desiderio da realizzare (può essere un progetto, un obiettivo personale, sentimentale o professionale) la domanda da farti è: in questo momento della mia vita, sto usando le mie capacità, le mie risorse e i miei talenti al meglio?
Prendi un foglio di carta ed elenca tutto ciò che stai facendo per raggiungere ciò che desideri. Se hai difficoltà nel compilare la lista perché non ti vengono in mente azioni concrete, se la lista è particolarmente breve o se, addirittura, hai difficoltà a definire nello specifico ciò che desideri, il supporto di uno psicologo può darti una marcia in più.
In questi casi, proprio perché si lavora sul potenziamento delle capacità, il percorso è generalmente breve: alcuni, in un solo incontro, riescono a mettere a fuoco aspetti importanti e questo basta per far cambiare passo alla loro vita, altri, invece, hanno bisogno di qualche seduta per apprendere nuovi copioni comportamentali e nuove strategie. In entrambi i casi devo confessarti che è davvero bello vedere come basta poco per far cambiare le persone in meglio!
Come puoi immaginare, tuttavia, il lavoro dello psicologo non finisce qui. Un secondo ambito di intervento infatti riguarda il supporto in caso difficoltà.
Pensa a tutte quelle situazioni in cui un problema con te stesso o con gli altri limita la tua vita: può essere una paura, un tuo modo di essere, o qualcosa che ti è accaduto e che non riesci a superare completamente e con cui convivere è faticoso.
In questi casi la tua vita tutto sommato funziona ancora bene, lavori o studi, hai delle relazioni soddisfacenti, ma c’è qualcosa dentro che intimamente ti logora, che hai provato a superare ma senza successo e che ti porti dietro con un misto di tristezza e rassegnazione.
Non fraintendermi, tutti passiamo momenti difficili e siamo chiamati a risolvere problemi, il punto è quando questi si incancreniscono senza risolversi e noi cominciamo a pensare che dobbiamo conviverci.
Per esperienza ti dico che in questi casi c’è una maggiore resistenza a chiedere aiuto: quando un problema non invalida la nostra vita ma la limita soltanto spesso lo percepiamo come sopportabile.
Immagina di voler vincere una gara ma hai un dolore a un piede o anche un semplice fastidio che però non ti passa. Puoi sicuramente fare finta di nulla ma corri due grandi rischi: il primo è quello di farti male davvero e peggiorare una situazione che, con un po’ di riposo o con le giuste cure, si sarebbe risolta velocemente; il secondo rischio è di gareggiare molto al di sotto delle tue possibilità, di faticare molto più di quanto richiesto e, soprattutto, di non goderti la competizione.
Se c’è qualcosa che ti turba da parecchio tempo o che non riesci a fronteggiare, nonostante gli sforzi compiuti, chiediti: a cosa sto rinunciando a causa delle mie difficoltà?
Immagina la tua vita senza il problema o la limitazione che ti affligge e prova a pensare a come ti sentiresti senza quel senso di tristezza o disagio per ciò che non riesci ad affrontare o superare. Se la vita immaginata è molto diversa da quella che stai vivendo, l’aiuto di uno psicologo può esserti decisamente utile.
E veniamo all’ultimo punto, che è quello che mi sta più a cuore perché riguarda tutti quei casi in cui la vita delle persone non è semplicemente limitata ma risulta invalidata da disturbi psicologici,
Che si tratti di attacchi di panico, ossessioni, paranoie, problemi alimentari, depressione, non c’è differenza: è sempre il disturbo ad avere il ruolo principale nella vita della persona.
Quello che serve in questi casi non è uno psicologo ma uno psicoterapeuta che sappia impostare una terapia per affrontare e risolvere efficacemente la situazione.
Immagina di voler vincere una gara ma di avere una gamba rotta: in queste condizioni non c’è modo di poter partecipare. L’unica cosa che puoi fare è fermarti, ingessare la gamba, poi fare un po’ di riabilitazione per poter essere pronto alla prossima occasione. È un percorso un po’ più lungo ma non per questo impossibile.
In queste circostanze un aiuto non solo è utile ma è indispensabile, a meno che tu non voglia continuare a trascorrere la tua vita come semplice spettatore rinunciando alla possibilità di gareggiare. Per esperienza ti dico che rivolgendoti a uno psicoterapeuta, soprattutto se utilizza terapie brevi, dopo poche sedute potresti avere significativi miglioramenti.
È probabile che tu sia scoraggiato, che la situazione ti sembri irrisolvibile, che tu abbia già provato a farti aiutare ma senza successo. Se ti trovi in una situazione simile prova a immaginarti vecchio e malandato dentro un letto di ospedale nel tuo ultimo giorno di vita.
La domanda da farti in questi casi è : cosa direbbe questo vecchio al giovane che ora sta leggendo? Gli direbbe di tentare ancora o di arrendersi? Rifletti su questo prima di decidere cosa fare.
Vorrei concludere con un’ultima riflessione fatta non da me ma da un mio paziente alla fine del suo percorso di terapia.
“Pensavo che andare dallo psicologo fosse roba da deboli e infatti è stato in un momento di debolezza e di vulnerabilità che mi sono convinto a chiedere aiuto. Oggi che mi sono liberato della sofferenza, però, sono grato alla mia debolezza, sono grato a me stesso per aver smesso di essere forte: è stato l’anello debole che mi ha salvato, è stato l’anello debole che ha rotto la catena che mi teneva prigioniero!”.
Se nel rispondere alle domande di questo articolo ti sei accorto di aver bisogno di uno psicologo o di uno psicoterapeuta, contattami e sarò felice di poterti essere di aiuto.
Per approfondire:
Nardone G, 1994, Manuale di Sopravvivenza per psico-pazienti; ovvero come evitare le trappole della psichiatria e della psicoterapia. Firenze, Ponte alle Grazie.
Nardone G, 1998 Psicosoluzioni. Milano, Rizzoli.
Nardone G, 2013 Psicotrappole. Firenze, Ponte alle Grazie.
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