
Iper protezione, accordo e sacrificio: come costruire problemi in famiglia con le migliori intenzioni
L’idea che le difficoltà e i disturbi di bambini, ragazzini e adolescenti siano frutto di comportamenti di negligenza, trascuratezza e abuso da parte dei genitori è vera in minima parte.
Molti problemi che si creano in famiglia, infatti, sono figli delle buone intenzioni.
L’esperienza clinica ma anche un’attenta osservazione dimostrano che spesso problematiche anche serie sono frutto del tentativo mal riuscito dei genitori (o delle figure di accudimento) di fare il meglio, di dare il meglio e di essere il meglio per i loro figli.
Oggi voglio parlarti di tre forme molto frequenti di organizzazione famigliare basate su valori, atteggiamenti, dinamiche di comunicazione e di relazione che, nella migliore delle ipotesi, causano sofferenza e insoddisfazione tra i membri della famiglia ma che possono portare anche allo strutturarsi di disturbi psicologici nei figli.
Prima di illustrarti il funzionamento di questi modelli di famiglia permettimi però di fare una precisazione: gli atteggiamenti e i comportamenti che troverai di seguito descritti non sono patogeni in sé e per sé ma diventano disfunzionali solo se rappresentano l’unica o la principale modalità di interazione all’interno del nucleo familiare: ricordati insomma che è sempre la dose che fa il veleno.
Iper – protezione
In cima alla hit parade della famiglia italiana troviamo l’iper protezione come valore guida. L’idea di fondo è che prendersi cura di un figlio significhi essenzialmente tenerlo lontano non solo dai pericoli ma anche dalle delusioni, dalle sofferenze e, soprattutto, dalla fatica.
Ci si preoccupa spesso delle parole da utilizzare e dei modi corretti per parlare ai propri figli per evitare che qualcosa li ferisca o li turbi. La mente dei genitori (spesso anche di uno solo dei due) è popolata da questi pensieri: “è troppo presto per esporlo a questa prova, a questa delusione; è fragile, è debole, non ce la fa, va aiutato”.
Nel caso in cui uno dei partner si mostri più fermo o semplicemente utilizzi un linguaggio meno dolce e caldo per rivolgersi al figlio, l’altro moltiplicherà le sue attenzioni, giustificando così la sua iper-cura nei confronti del “piccolo indifeso”.
I comportamenti in questo tipo di famiglia possono essere ricondotti ad un tema di base: intervenire costantemente per aiutare e sostenere o, addirittura, per sostituirsi al figlio. Questo vale non sono nei primi anni di vita ma può diventare un modello di interazione che si perpetua fino all’età adulta (genitori che studiano con i figli fino all’università, che li accompagnano ai colloqui di lavoro, che gli puliscono la casa o gli organizzano la spesa settimanale).
Quando poi, come spesso accade, i bambini o i ragazzi sviluppano senso di insicurezza, incapacità e problemi di autostima per non aver mai potuto fare da soli, l’idea del genitore viene rinforzata: “vedi poverino non ce la fa, va aiutato”.
Il modello iperprotettivo è ad oggi il più diffuso. L’intenzione e gli obiettivi del genitore sono encomiabili (rendere la vita più facile al proprio figlio) ma gli effetti sono spesso nefasti.
Nei figli cresciuti in questo modello familiare spesso si osservano insicurezza cronica, bassa autostima, agiti di rabbia, comportamenti di dipendenza, depressione e ritiro sociale.
Nei genitori alberga una costante preoccupazione per la vita dei figli, un’insoddisfazione di fondo per non vederli all’altezza delle situazioni e invidia nei confronti di coloro che vengono percepiti come più dotati o più fortunati.
Proseguendo nella nostra classifica, al secondo posto troviamo la famiglia il cui valore guida è l’accordo. Le decisioni si prendono all’unanimità, il conflitto è bandito e gli strumenti per raggiungere il consenso sono il dialogo, la spiegazione, la ragionevolezza.
Questo ovviamente avviene anche quando i figli sono in tenera età. Si assiste ad un’adultizzazione dei bambini, che vengono chiamati a esprimere preferenze, opinioni e a decidere anche quando non hanno le competenze per farlo.
Le regole in famiglia non vengono rispettate perché alle trasgressioni non seguono sanzioni ma lunghe spiegazioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Se i genitori perdono la calma si sentono cattivi e in difetto e finiscono sempre per cedere alle richieste dei figli.
La comunicazione e la relazione sono improntate all’amicizia e alla confidenza.
L’effetto paradossale è che, in un modello che aspira a essere democratico ed egualitario, quello che si osserva più frequentemente è l’instaurarsi della tirannia dei figli.
Gli sforzi dei genitori (quasi sempre con un ottimo livello culturale e particolarmente attenti ai bisogni emotivi dei figli) generano risultati opposti a quelli desiderati: bambini e ragazzi irrispettosi, provocatori, a volte violenti, che crescono senza imparare la differenza tra giusto e sbagliato e per i quali la pretesa diventa l’atteggiamento esistenziale prevalente.
In queste famiglie spesso si osservano scatti di ira o di rabbia da parte dei figli, abulia, oppositività e, nei casi più gravi, comportamenti devianti e antisociali.
Nei genitori i sentimenti più frequenti sono frustrazione e vergogna, accompagnati da senso di incapacità e impotenza nei confronti di figli.
Veniamo ora al terzo modello di famiglia, anche questo discretamente diffuso, in cui la parola d’ordine è sacrificio.
I genitori fanno rinunce continue per i figli e si aspettano in cambio benevolenza e gratitudine.
Il piacere in queste famiglie è bandito e il divertimento, lo svago, il gioco sono considerati pericolosi e inutili passatempi; in queste famiglie l’atmosfera che si respira è di rassegnazione e desolazione.
Sebbene i genitori (a volte non particolarmente benestanti) facciano di tutto per i figli e conducano vite di privazioni, la loro non è una posizione generosa perché in cambio chiedono ai figli riconoscenza, spesso un uguale abnegazione e, soprattutto, pretendono che i figli soddisfino tutte le loro aspettative.
Il dovere scandisce le giornate e la comunicazione, seppur con diverse varianti, ha per oggetto lo stesso tema “non apprezzi quello che faccio per te” “cosi mi ripaghi dopo tutti i sacrifici”.
Il comportamento dei figli viene manipolato attraverso il ricatto morale e il senso di colpa e c’è spesso un continuo richiamo a imitare coetanei considerati più responsabili, più virtuosi, più rispettosi.
I figli schiacciati da questo eccessivo peso, divenuti adulti, nella migliore delle ipotesi si allontano dalla famiglia oppure, per differenziarsi, assumono comportamenti egoisti, dissoluti e di totale menefreghismo.
In alcuni casi, i figli seguono l’esempio familiare conducendo una vita votata al sacrificio e alle privazioni
I genitori, che aspirano a vivere attraverso i figli la vita che non hanno avuto, raramente raggiungono il loro scopo e si consumano nel risentimento, nelle lamentele e nel vittimismo
E’ importante che tu sappia che, la cosa migliore nelle interazioni familiari è essere flessibili e alternare comportamenti e atteggiamenti differenti, che tengano conto delle circostanze, del temperamento di tuo figlio e della fase del ciclo di vita in cui si trova . Ricordati, inoltre, che essere pragmatici è utile: la domanda principale che devi farti non è tanto se un comportamento è giusto o sbagliato quanto piuttosto se, agendolo, stai raggiungendo l’effetto desiderato. Se dopo un numero discreto di tentativi quello che ottieni non ti piace, cambia!
Spero che questo articolo ti abbia dato una panoramica chiara di alcuni comportamenti disfunzionali che è bene evitare. Se pensi che quello che ho scritto possa essere di aiuto a qualcuno che conosci ti chiedo di condividerlo. Se invece senti di essere vittima di alcuni dei comportamenti o delle dinamiche relazionali raccontate in questo articolo e desideri lavorare per liberartene, contattami e sarò felice di aiutarti.
Per approfondire
Nardone, G., Giannotti E., Rocchi, R. (2015). Modelli di famiglia. Conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli. Tea.
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Tuo figlio ha una buona autostima? Tre cose da sapere per poter rispondere
Molti genitori arrivano in studio portando come problema la bassa autostima dei figli e mi chiedono se sia possibile intervenire su questo.
In questo articolo voglio fare un po’ di chiarezza, spiegandoti in maniera molto semplice cosa è l’autostima, quali sono i pilastri su cui si fonda e cosa puoi fare tu per sostenere quella di tuo figlio.
La prima cosa da sapere è che l’autostima indica il valore che ciascuno di noi attribuisce a se stesso: è come se fosse un voto che ci assegniamo per tutto quello che siamo.
Ma in base a cosa esprimiamo questo giudizio su noi stessi?
I fattori sono tanti: alcuni innati altri appresi, alcuni individuali altri dipendenti dal contesto e, sebbene non ci sia un completo accordo tra gli studiosi su come si sviluppi l’autostima, è possibile identificare alcuni elementi che sembrano avere un peso determinante nella sua formazione e su cui è possibile intervenire.
Uno dei più importanti e di cui voglio parlarti oggi è l’autoefficacia.
L’autoefficacia non è altro che la convinzione di sentirsi capace di raggiungere un dato obiettivo, di svolgere uno specifico compito o di gestire particolari situazioni o emozioni.
A differenza dell’autostima, che è un concetto generale, l’autoefficacia riguarda aree specifiche su cui è più facile intervenire
Ma qual è il rapporto tra autostima e autoefficacia e perché quest’ultima è così importante?
Devi sapere che la sensazione di sentirsi capaci è uno degli ingredienti fondamentali per lo sviluppo di una buona autostima.
Per i bambini, in particolare, ci sono alcune aree di autoefficacia che sono direttamente collegate allo sviluppo dell’autostima.
Gli ambiti principali a cui devi prestare attenzione sono quattro: 1) rapporto con i genitori, 2) rapporto con gli amici, 3) rapporto con il proprio corpo, 4) risultati scolastici.
Nel rapporto con i genitori e con gli adulti in generale, un bambino si sente autoefficace quando riesce a esprimere i propri bisogni, a chiedere aiuto e contemporaneamente sviluppa un livello di autonomia in linea con la sua età.
Se vuoi favorire il senso di capacità di tuo figlio in quest’ambito è importante che tu sia capace di dare limiti e regole chiari e di farli rispettare.
Per ottenere ciò è importante curare la comunicazione e creare una relazione caratterizzata da rispetto, affetto e fiducia.
Puoi accorgerti che ci sono difficoltà in questa area quando tuo figlio nel rapporto con te e, a volte anche con altre figure adulte, non sa modulare i suoi comportamenti (è oppositivo, provocatorio), le sue emozioni (ha scatti di ira, o ti sembra inibito) o non dimostra un livello di autonomia in linea con la sua età.
Nel rapporto con gli amici , per sentirsi capace un bambino deve poter creare delle relazioni soddisfacenti in cui si sente accettato e in cui può esprimere se stesso. È importante pertanto favorire la socializzazione sia in ambito scolastico che extrascolastico, creando occasioni di incontro, soprattutto per quei bambini che hanno un temperamento più introverso.
Puoi accorgerti che ci sono problemi in questa area se tuo figlio dimostra difficoltà ad entrare in relazione, se non riesce ad integrarsi nel gruppo dei coetanei, se viene cercato poco dai compagni, o se predilige l’interazione con gli adulti.
E veniamo ora al rapporto con il proprio corpo, che è un fattore spesso poco curato e a cui non si presta la dovuta attenzione. L’immagine corporea è un aspetto fondamentale del sé e, spesso, sentirsi inadeguati o incapaci di utilizzare il proprio corpo (goffi, maldestri) è un fattore di vulnerabilità.
È importante, pertanto, curare sin dalla tenera età l’alimentazione dei propri figli in modo da mantenerli normopeso e in salute. Sento molti genitori dire “poi dimagrirà con lo sviluppo”, ma questo è un grande errore perché il sovrappeso oltre a nuocere a livello fisico contribuisce a creare un’immagine di inadeguatezza che i bambini fanno difficoltà ad abbandonare.
Per favorire lo sviluppo di una buona immagine corporea lo sport può essere di grande aiuto, perché favorisce il senso di capacità e di competenza oltre ad essere un allenamento alla fatica e alla perseveranza.
Spesso è difficile riconoscere precocemente i disagi nell’area dell’immagine corporea per cui la migliore cosa che puoi fare è eliminare i fattori di rischio, facendo fare sport a tuo figlio da due a tre volte a settimana e prestando attenzione al suo peso corporeo.
Ho lasciato per ultimi i risultati scolastici perché meritano il giusto approfondimento.
La scuola è uno dei primi ambiti in cui i bambini vengono valutati su una prestazione.
Sentirsi capaci di affrontare i compiti e le attività che vengono loro proposti influenza positivamente l’impegno, il rendimento e la soddisfazione personale.
Con questo non voglio dire che tuo figlio deve essere il primo della classe ma soltanto che è importante dare il giusto valore a quei compiti quotidiani che rappresentano i suoi primi doveri.
Puoi aiutare tuo figlio sostenendolo all’inizio e poi incentivando progressivamente la sua autonomia.
Puoi accorgerti che ci sono problemi in questa area se tuo figlio mostra difficoltà generalizzate, se comincia a sviluppare un senso di incapacità verso i compiti o se sviluppa problemi fisici (nausea, mal di pancia) quando deve andare a scuola.
Per finire voglio darti un ultimo suggerimento che puoi mettere in pratica da subito.
Se c’è una verità incontrovertibile sull’autostima è che, quest’ultima, come sostiene lo psicologo Giorno Nardone, non si eredità ma si conquista quotidianamente.
La cosa più importante, pertanto, che puoi fare per tuo figlio è facilitare questo processo quotidiano di conquista.
Quello che ti consiglio di fare è di cominciare con una piccola azione o meglio con una omissione: evita l’aiuto non richiesto.
Lascia che tuo figlio si sperimenti, che sbagli, che si confronti con le difficoltà e che impari che le può superare e che, anche quando non ci riesce, … non è la fine del mondo!
Evita di intervenire perché pensi che lui non sia in grado o perché vuoi evitargli delle sofferenze, offrigli il tuo aiuto solo se è lui a chiederlo.
Se aiuti sempre tuo figlio, lui penserà di non essere in grado e questa credenza non facilita certo lo sviluppo dell’autostima.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e, se pensi che possa essere di aiuto a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se invece credi che tuo figlio abbia delle difficoltà e vuoi un consulto, non esitare a contattarmi: puoi inviarmi un sms o scrivermi direttamente dal sito.
Per approfondire
Bujon, S, Einfalt, L. (2014). Educare i bambini e gli adolescenti all’autonomia, per aiutarli a crescere sereni e sicuri di sè. Red Edizioni
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Tuo figlio è timido? Tre indicazioni da mettere subito in pratica
“Mio figlio è timido”. Questa è una frase ricorrente nei colloqui di consulenza e uno dei motivi per cui i genitori chiedono un aiuto specialistico.
La timidezza di un figlio è vissuta generalmente con ansia perché viene considerata un sicuro predittore di problemi non solo nell’infanzia ma anche nella vita adulta.
I segnali della “timidezza” vengono rilevati per lo più alla scuola materna ma è nei primi anni delle elementari che i genitori cominciano ad allarmarsi, temendo che le caratteristiche del proprio figlio possano incidere negativamente sui risultati scolastici.
Ecco allora tre spunti su cui riflettere uniti ad alcune indicazioni pratiche da sperimentare subito con tuo figlio.
Esplora il significato della parola timidezza e identifica la tua posizione rispetto ad essa.
Per iniziare poniti alcune domande.
Cosa vuol dire per te “essere timidi”? Quali sono le caratteristiche che associ alla timidezza? Sono positive o negative?
Quali sono i comportamenti che tuo figlio agisce e quelli che invece non mette in atto a causa della sua timidezza? Compilane un elenco dettagliato e prova a chiederti “in che modo questi comportamenti rappresentano un problema per mio figlio”?
Questo passaggio è fondamentale perché può servire a renderti conto che, in alcuni casi, quella che definiamo timidezza è semplicemente un modo diverso di stare nelle situazioni e nei contesti sociali, derivante da un approccio alla realtà più osservativo e riflessivo, che predilige lo spazio del pensiero rispetto a quello dell’azione.
Se questa modalità di stare al mondo non limita il tuo bambino ma rende solo i suoi tempi diversi da quelli di alcuni suoi coetanei , non c’è motivo di allarmarsi né di spingerlo a modificare il suo atteggiamento.
Può esserti di aiuto prenderti del tempo per riflettere e identificare cosa ti spaventa di più dei comportamenti di tuo figlio. Ci rivedi tue difficoltà? Sei stato anche tu un bambino timido e questo ti ha fatto sentire inadeguato? Oppure sei una persona estroversa e socievole e, per questo, non riesci a comprendere e gestire alcune reazioni di tuo figlio, che a volte ti infastidiscono o ti mettono in imbarazzo?
Ricordati che le somiglianze possono portarti con facilità a identificarti con tuo figlio e a scambiare i tuoi bisogni con i suoi, mentre le differenze rischiano di farti provare un senso di estraneità, allontanandoti da tuo figlio e impedendoti di cogliere le sue necessità.
Prepara il campo e evita di evitare.
Un bambino timido è quasi sempre un bambino che ha bisogno di tempi più lunghi per ambientarsi, fidarsi, esporsi, fare amicizia. Deve osservare e studiare prima di passare all’azione e non ama generalmente gli imprevisti. Può essere utile allora, in tutti quei casi in cui tuo figlio deve affrontare situazioni nuove, anticipargli verbalmente, sotto forma di racconto, lo scenario che si troverà a vivere. Quello che puoi fare è descrivere in anticipo la situazione, colorandola di particolari e rendendola così più prevedibile; in questo modo lo prepari mentalmente facilitando il suo “ambientamento”.
Può accadere in ogni caso che tuo figlio non saluti gli estranei, che si rifiuti inizialmente di giocare con bambini che non conosce o che abbia difficoltà a staccarsi da te.
Evita di etichettare il suo modo di essere, di giustificarlo di fronte agli altri (sai lui è un po’ timido, si vergogna per questo non saluta), di spingerlo all’azione (su, saluta lo zio, non essere maleducato; non stare attaccato a me vai a giocare con i compagni) e, soprattutto, evita di evitare le situazioni espositive per paura di metterlo in difficoltà o perché tu stesso provi imbarazzo per il suo comportamento.
Più tuo figlio percepirà che vivi i suoi comportamenti come problematici più lui stesso sentirà di avere un problema e di essere inadeguato.
Allena la capacità di entrare in relazione.
Le persone timide, diversamente da quello che il senso comune spinge a credere, hanno generalmente buone competenze relazionali: ascoltano con interesse, colgono i dettagli e le sfumature, sono molto empatiche. Quello che faticano a fare non è stare in relazione quanto piuttosto rompere il ghiaccio per entrare in relazione.
E’ per questo che quando la timidezza compromette la capacità di entrare in relazione e porta all’isolamento diventa un problema.
Comportati pertanto con tuo figlio come se fossi un allenatore e aiutalo a sviluppare la capacità di entrare in relazione.
Crea per tuo figlio occasioni di socializzazione, dapprima con pochi bimbi poi in gruppo: invita amici a casa, portalo al parco, fagli fare sport , iscrivilo agli scout.
Soprattutto se tuo figlio è in età prescolare, è probabile che tu debba affiancarlo e aiutarlo a rompere il ghiaccio standogli vicino.: impara a essere per lui un supporto solido e un ancora di sicurezza, senza però sostituirti a lui né forzarlo.
Rispetta i suoi tempi e non spazientirti di fronte alle sue esitazioni. Se sarai costante vedrai che con gradualità e con i suoi modi, imparerà a stare con gli altri bambini e ad integrarsi.
Spero che queste indicazioni ti siano state utili e, se pensi che possano aiutare qualcuno che conosci, ti chiedo di condividere questo articolo.
Se ti accorgi che tuo figlio ha difficoltà legate alla timidezza che permangono nel tempo, che si presentano in diversi contesti (casa, scuola, sport) e che non riesci a gestire, allora chiedi un aiuto specialistico: un intervento tempestivo in questi casi evita che i problemi si trasformino in disturbi psicologici.
PER APPROFONDIRE
Zimbardo, P.G., Shirley, L. (2008). Il bambino timido. Comprendere e aiutare a superare le difficoltà personali. Erickson. Trento.
Cain, S. (2017). Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare. Bompiani. Roma
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Il ruolo dei nonni in famiglia: indicazioni ai genitori per vivere in pace e contenti
I nonni sono delle risorse importanti per le famiglie con figli.
L’aiuto che danno in alcuni casi è quotidiano, in altri è limitato alle situazioni di emergenza, ma rappresenta spesso un elemento insostituibile nell’organizzazione familiare.
Capita frequentemente, tuttavia, di assistere a attriti, divergenze, schermaglie più o meno esplicite tra la famiglia di origine e i neogenitori su aspetti che riguardano la gestione o l’educazione dei nipoti. La situazione può degenerare quando le dinamiche disfunzionali instauratesi arrivano ad avvelenare il clima familiare.
Oggi voglio darti alcune indicazioni che, sulla base della mia esperienza, possono risultare utili per facilitare i rapporti tra le famiglie e mantenere relazioni serene.
Definisci le regole, delimita le eccezioni, sii indulgente
So che ti piacerebbe che le persone a cui affidi tuo figlio fossero completamente allineate con te in termini di comportamenti, valori e abitudini, ma quasi mai è così. Non si tratta solo di distanza “generazionale” ma di percorsi di vita diversi o contesti culturali lontani.
Le differenze rispetto ai tuoi genitori o a quelli del tuo partner possono essere macroscopiche o sfumate ma capisco che ti facciano arrabbiare quando si traducono in atteggiamenti e comportamenti verso tuo figlio che non approvi (fissazioni sul cibo, eccessivo lassismo, commenti spiacevoli, metodi educativi non proprio ortodossi).
Devi sapere, tuttavia, che il tempo passato con i nonni, a meno che non sia particolarmente lungo ed esclusivo, non incide in maniera significativa sull’educazione di tuo figlio. Tu e il tuo partner rimanete le principali figure di riferimento e sono le vostre abitudini, le vostre regole i vostri valori che verranno trasmessi a tuo figlio.
Evita, pertanto, di biasimare o stigmatizzare il comportamento dei tuoi genitori o dei tuoi suoceri (finirai quasi sempre per farli arroccare ancora di più sulle loro posizioni) e sii indulgente rispetto alle loro differenze, quasi mai faranno la differenza con tuo figlio.
Definisci invece in modo chiaro come eccezioni quei comportamenti che non condividi “la nutella si mangia solo a casa di nonna, a casa nostra la merenda si fa con la frutta”, o ancora “i compiti li fai da solo, se nonna ti aiuta pazienza, quando sei a casa mamma e papà controllano solo quando hai finito”.
Mostra la tua preoccupazione, chiedi comportamenti specifici, trova un’alternativa
Se tuo figlio passa molto tempo con i nonni o se alcune loro abitudini comportamenti possono essere dannose per la sua crescita, allora provare a cambiare i comportamenti dei tuoi genitori o dei tuoi suoceri può diventare una necessità.
Per riuscire in questo intento evita di sostenere la tua causa con mille argomentazioni e facendo leva sulla ragione, mostra piuttosto la tua preoccupazione “sono in ansia perché il pediatra mi ha detto che Luca è in sovrappeso e questo non è buono per la sua salute e inoltre a scuola cominciano a prenderlo in giro”; “siamo preoccupati perché Luca è sempre meno autonomo nei compiti, tutti i suoi compagni li fanno da soli e lui è rimasto molto indietro”.
Chiedi specificatamente sotto forma di aiuto il comportamento che vorresti che i tuoi genitori o i tuoi suoceri avessero con tuo figlio “potreste aiutarci a fargli seguire la dieta che il pediatra ci ha indicato, ci dareste un grande aiuto?” “potreste aiutarci a renderlo più autonomo, controllando i suoi compiti solo alla fine, sarebbe davvero importante per noi?”.
Per quanto ti possa sembrare strano un giusto tono e una sincera richiesta di aiuto possono risultare molto potenti: i genitori non sanno resistere alla tentazione di aiutare i loro figli in difficoltà!
Se, tuttavia, le posizioni sono inconciliabili e pensi che il modo di vivere e le abitudini dei tuoi suoceri o dei tuoi genitori siano per tuo figlio deleterie, trova un’altra alternativa e riduci il tempo che tuo figlio passa con loro.
Se non riesci a cambiare l’ambiente in cui tuo figlio deve stare, fagli cambiare ambiente: cerca una baby sitter, organizzati con altri genitori, esci prima dall’ufficio, insomma trova una soluzione che non contempli la presenza prolungata ed esclusiva dei nonni.
Evita i confronti, non criticare, costruisci ricordi
Capita che i genitori ingaggino tra loro delle lunghe contese per stabilire la frequenza con cui i figli devono vedere i nonni paterni o materni. Spesso nascono delle e vere e proprie gelosie, di cui i bambini soffrono molto. Evita di cadere in questa trappola, facendo confronti tra il rapporto che tuo figlio ha con i tuoi genitori o con i tuoi suoceri e fai in modo che passi del tempo con entrambi, senza colpevolizzarlo se sembra prediligere la compagnia di un nonno o una nonna che considera speciale. Astieniti dal criticare i nonni o dall’ evidenziare i loro difetti e lascia pure che tuo figlio li idealizzi un po’.
Purtroppo a causa dell’età sempre più avanzata in cui le coppie diventano genitori, il tempo che i nonni passano con i loro nipoti è diminuito molto. Ciò nonostante il tempo trascorso con i nonni continua ad essere considerato come il tempo della spensieratezza e dell’amore incondizionato.
Se sei fortunato e tuo figlio può ancora godere della compagnia dei suoi nonni, lasciagli lo spazio e il tempo per costruire con loro dei ricordi.
Lo sguardo dei nonni, il modo in cui viziano i nipoti e si prendono cura di loro sono un conto aperto nella banca dell’amore, a cui poter attingere nel corso della vita: fai in modo che anche tuo figlio possa goderne.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e se pensi possa interessare a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se hai delle difficoltà a gestire i rapporti con la tua famiglia di origine o con i tuoi suoceri, contattami e lavoreremo insieme per costruire un nuovo equilibrio funzionale.
PER APPROFONDIRE
Lusso, V. C, (2014). Genitori e nonni: alleati o rivali? Erickson. Trento.
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Hai un figlio preadolescente? Cinque cose che devi sapere
La preadolescenza è una fase del ciclo di vita collocabile tra i dieci e i quattordici anni, che coincide con la pubertà.
Questa definizione, tuttavia, è orientativa perché spesso, soprattutto nel caso delle bambine, l’ingresso nella preadolescenza può avvenire anche prima.
Se chiedessimo ad un genitore che cosa è la preadolescenza probabilmente ci risponderebbe che è quella fase in cui il proprio figlio diventa irriconoscibile: comportamenti, atteggiamenti, frasi, abitudini cambiano e sembra di avere in casa un alieno venuto da Marte.
Se chiedessimo, invece, ad un ragazzo che cosa è la preadolescenza ci direbbe che è quella fase in cui i genitori diventano insopportabili: quello che mamma e papà dicono, i divieti che mettono, le regole che pretendono di far seguire sono ostacoli che impediscono l’esercizio di un’agognata libertà.
Il minimo comune denominatore tra queste due posizioni è che, sia per i genitori che per i figli, la preadolescenza è faticosissima: è richiesta una grande quantità di energia, sia fisica che mentale, per far fronte alle sfide, alle richieste, alle negoziazioni, ai compiti evolutivi tipici di questo periodo
La preadolescenza precede l’adolescenza e se ne differenzia.
Nell’adolescenza i ragazzi scompaiono: i loro interessi si spostano fuori casa, l’esterno diventa il luogo più desiderato mentre le mura familiari sono sempre meno abitate. Aumentano i comportamenti di chiusura e isolamento nei confronti dei genitori.
La preadolescenza è diversa: inizia da parte dei ragazzi la ricerca dell’autonomia e contemporaneamente iniziano gli scontri con mamma e papà. La casa si trasforma in un piccolo ring: discussioni, negoziazioni, scenate di rabbia, provocazioni. In tutto questo c’è un aspetto positivo che un genitore non deve ignorare: il figlio è ancora presente e, seppur faticosamente e in modo tumultuoso, ricerca la relazione.
È per questo che la preadolescenza è il momento propizio per stare accanto ai ragazzi, aiutandoli a sviluppare una serie di risorse e capacità che li aiuteranno a percorrere la strada verso l’età adulta.
Stare accanto ad un preadolescente richiede un cambio di mentalità.
Nell’infanzia il compito principale di un genitore è legato alla cura e alla protezione. A partire da una certa età a questo a compito ne va affiancato un altro: promuovere la separazione e incentivare l’autonomia in ambiti sempre più ampi.
Questo richiede ai genitori di cambiare sguardo e cominciare a vedere il proprio figlio non più come un pulcino da proteggere ma come un tigrotto da allenare alla vita.
Emotivamente è un passaggio complesso e non sempre indolore: significa sapere osservare il proprio figlio che prova, sbaglia, fallisce, soffre e riuscire a non intervenire, lasciandogli sperimentare la responsabilità che ogni nuovo potere di azione comporta.
Se hai stabilito, ad esempio, che la gestione dei compiti a casa è in capo a tuo figlio, le eventuali dimenticanze saranno una sua esclusiva responsabilità. Questo vuol dire riuscire a sopportare che tuo figlio vada a scuola impreparato o senza aver finito i compiti, sperimentando in prima persona le conseguenze delle sue azioni.
Ricordati che attribuire potere a tuo figlio senza dargli anche la responsabilità che l’esercizio del potere comporta, significa farlo vivere nel privilegio e soprattutto rimandargli un’immagine falsata di quella che è la vita.
Saper giocare al “tiro alla fune” è una competenza da sviluppare per stare accanto a un figlio.
Come spiega molto bene il medico e psicoterapeuta Alberto Pellai, che ha dedicato numerosi libri alla preadolescenza, favorire l’autonomia di un figlio significa giocare con lui al “tiro alla fune”. In questo gioco ogni squadra tira dalla propria parte e vince chi riesce a guadagnare terreno. Tu e tuo figlio per la prima volta siete in squadre differenti e il tuo compito è quello di calibrare bene la forza in questo gioco.
Devi lasciargli un po’ di terreno, devi fargli guadagnare qualche passo, deve sentire che può gestire un po’ di potere. Allo stesso tempo non puoi lasciare andare completamente la corda perché a questa età tuo figlio non è ancora libero di gestire spazi di autonomia sconfinati e deve sentire che la cornice delle regole viene definita ancora da te.
Devi evitare, tuttavia, anche il comportamento opposto e cioè quello di tirare la fune troppo forte e non concedere nessuno spazio. I rischi che corri in quest’ultima ipotesi sono due: potresti iniziare una lotta simmetrica e crescente che porta tuo figlio a tirare ancora più forte sino rompere con te o a chiudersi nel suo risentimento e nella sua rabbia; oppure, al contrario, tuo figlio potrebbe perdere fiducia in sé stesso e smettere di tirare, aderendo alle tue condizioni e alle tue regole. In questi casi spesso la ribellione viene sedata solo apparentemente e risulta invece posticipata in fasi più avanzate del ciclo di vita, in cui diventa altamente disfunzionale.
La preadolescenza ha bisogno di modelli autorevoli: coltiva la calma.
Ciò che fa la differenza e che consente ad un genitore di rimanere punto di riferimento nelle turbolenze e nelle ribellioni, che accompagnano la crescita di un figlio, è la sua autorevolezza.
L’autorevolezza dipende da una molteplicità di fattori ma tra tutti la capacità di mantenere la calma e non perdere il controllo è fondamentale.
In preadolescenza i ragazzi vivono sulle montagne russe: cambiano umore continuamente, passano velocemente dalla rabbia alla tristezza e, soprattutto, “sentono” più che pensare. Il loro cervello emotivo è nella fase del massimo sviluppo mentre la parte cognitiva ancora non è pienamente matura.
In questa fase i genitori devono saper contenere quelle emozioni che i ragazzi fanno fatica a gestire.
Questo vuol dire sapere essere fermi e, se serve, inflessibili senza cedere alle provocazioni e senza farsi trascinare dagli atteggiamenti sopra le righe dei propri figli.
Se ti capita spesso di urlare, di fare scenate, di perdere le staffe ti consiglio di provare a modificare questo tuo comportamento.
Prova a concentrarti sul tono della voce, la sua modulazione infatti è un potente regolatore emotivo. Se eviti di cedere all’abitudine di urlare, col tempo ti sentirai sempre più sicuro e meno in balia delle emozioni.
Se, invece, rimanere calmo è per te difficile, abbandona il campo non appena senti che la tua pazienza è arrivata al limite. Puoi dichiarare a tuo figlio “Sei troppo arrabbiato, parleremo quando ti sarai calmato”.
Gestire efficacemente queste situazioni ad alto contenuto emotivo ti conferisce autorevolezza e insegna a tuo figlio il valore dell’autocontrollo.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e se pensi possa essere di aiuto a qualcuno che conosci ti chiedo di condividerlo.
Se hai bisogno di un supporto per gestire il rapporto con tuo figlio preadolescente chiamami e sarò felice di lavorare con te su questo.
PER APPROFONDIRE
Pellai A., Tamborini B., (2017) L’età dello Tsunami, Milano, DeAgostini.
Ciacci S., Giannini S., (2007) Accompagnare gli adolescenti, Trento, Erickson
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Stare accanto a un figlio disabile. Tre cose che mi hanno insegnato quelli che lo fanno ogni giorno
Stare accanto ad un figlio disabile è difficile.
Pensavo ingenuamente che la parte più impegnativa fossero le attenzioni e le cure che si devono prestare e le competenze che, soprattutto nei casi gravi, si devono acquisire.
Non è così. La parte più dolorosa per chi ha un figlio disabile consiste nel dimenticare il futuro che si era immaginato per sé e per la propria famiglia.
È un lavoro faticoso perché lasciare andare sogni e piani, rivedere aspettative e desideri a volte lascia nudi e privi di identità.
Le storie che ho avuto il privilegio di ascoltare sono tra loro molto differenti, così come le risorse e le ferite delle persone che me le hanno raccontate, ma in tutte queste vite ho trovato delle note comuni che, se ascoltate, contribuiscono a rendere meno udibile il rumore del dolore, che pure rimane.
Chi sta accanto a un figlio disabile accoglie la disabilità nella propria vita e la fa diventare una caratteristica che ridefinisce la famiglia.
Sembra naturale invece è un passaggio che richiede coraggio.
“Per tanto tempo mi sono sentita divisa – mi racconta Cristina, 46 anni, mamma di una figlia sordocieca. “Quando stavo fuori casa o lontano da mia figlia ero me stessa, quella di sempre, la donna normale e piena di vita capace di stare al mondo, di prendere decisioni, di dare consigli, di lavorare; quando tornavo da mia figlia dovevo indossare una nuova identità: quella della donna a cui la vita era cambiata per sempre. Ci ho messo un po’ per far incontrare queste due persone e per accettare che non potevano rimanere separate”.
Fino a quando la disabilità rimane un fatto privato e l’handicap qualcosa che definisce un figlio ma da cui i genitori non si sentono definiti, prevale la negazione. E sebbene questo meccanismo di difesa possa essere adattivo nel breve periodo, nel lungo periodo impedisce al genitore o alla coppia di attingere a risorse psicologiche utilissime.
Negare non vuol dire necessariamente non vedere la realtà, ma osservarla da dietro un vetro, mantenendo una distanza. Spesso in questa fase i genitori si isolano dal mondo circostante, si chiudono, evitano i rapporti sociali e, non potendosi più rifugiare nel futuro che promette solo angoscia, si rifugiano con la mente nel passato, nel “prima”: prima dell’incidente, della malattia, della diagnosi, quando ancora la vita era pensabile.
Scegliere di invertire questa rotta è indispensabile se si vuole tornare a navigare verso una meta.
“Un giorno un collega mi ha chiesto quanti anni avesse mia figlia e non so perché ma non mi sono limitata a dire l’età ma gli ho raccontato la mia storia. Per i giorni seguenti, confessa Cristina, ho provato paura mista a vergogna, pensando che i racconti su mia figlia si sarebbero diffusi nei corridoi dell’ufficio. Ma non è stato così, o forse si, ma non importa perché con il tempo ho solo sentito un grande sollievo”.
Chiara ha una storia diversa. Diventa madre giovanissima e, a soli 45 anni, si trova vedova a seguire il figlio diciannovenne finito in carrozzina con doppia amputazione delle gambe per un incidente stradale.
Le chiedo delle risorse a cui ha attinto per farsi forza e mi risponde in modo inaspettato.
“Conosci la parabola dei pani e dei pesci? Bene, quella parabola racconta qualcosa che ho sperimentato in prima persona. Quando cominci a dare agli altri ciò che pensi di non avere in quantità sufficiente, come per miracolo le tue risorse si moltiplicano. Dopo la morte di mio marito e l’incidente di Luca ero prostrata. Mi sentivo una vittima degli eventi e provavo odio e risentimento per chi percepivo come più fortunato di me. Non avevo le forze per stare dietro a Luca e, quando non ero con lui, dormivo o piangevo nel mio letto.
Quando un’amica della parrocchia mi chiese se il martedì potevo accompagnare un ragazzo del quartiere a fare fisioterapia nello stesso centro dove andava mio figlio, lo presi quasi come un affronto. Chiedevano aiuto a me? Accettai per quel martedì precisando che però avrebbero dovuto trovare qualcun altro perché io non riuscivo a fronteggiare la mia vita, figuriamoci aiutare qualcun altro.
Oggi, a distanza di cinque anni, ho fondato una associazione che aiuta le persone con ridotta mobilità negli spostamenti e ho quattro persone che collaborano con me. Come ho fatto? Ho attinto alle risorse che non avevo e, aiutando gli altri, ho aiutato me stessa.”
La risposta di Chiara sembra avere una conferma dalla scienza. Come mostra la psicologa McGonigal, occuparci degli altri cambia la nostra biochimica celebrale poiché si attivano i sistemi che alimentano la speranza e il coraggio, oltre a tutta una serie di meccanismi che ci proteggono dagli effetti nocivi dello stress.
La natura ci ha programmati in modo tale che, se ci concentriamo sull’alleviare la nostra sofferenza rimaniamo invischiati nella paura; se, invece, nelle situazioni in cui ci sentiamo impotenti o con poche risorse facciamo qualcosa per supportare il prossimo, come fosse un miracolo, migliorano la motivazione, la speranza, la percezione, l’intuizione e l’autocontrollo. Se risparmiamo diventiamo più poveri se doniamo ci arricchiamo.
Quando sentiamo che le nostre risorse come tempo e energia sono limitate scegliere di essere generosi è un modo per moltiplicarle.
Un altro aspetto che mi ha fatto molto riflettere e che ho trovato in molte storie che mi sono state raccontate in terapia o in gruppi di aiuto, riguarda il modo in cui la disabilità ci obbliga a confrontarci con la visione che abbiamo dell’uomo.
“Quando sei genitore molte volte devi rivedere le aspettative che hai sui tuoi figli, ma quando sei genitore di un figlio con ritardo mentale grave, tutte le tue certezze crollano.”
Paolo, 50 anni, è un ricercatore che studia il cervello. Ha un figlio con ritardo grave che non parla e non cammina. Paolo scandisce le parole lentamente e con un tono basso, come se le verità che ha imparato siano ancora troppo fragili per essere dette ad alta voce.
“Mio figlio ha dieci anni ed io ho fatto di tutto per migliorare la qualità della sua vita, dal mio punto di vista. Sono andato all’estero, ho consultato specialisti, ho insultato chi provava a farmi vedere la realtà dei suoi limiti. Per tanto tempo ho pensato che o lui migliorava oppure io non servivo a niente. Probabilmente ho anche pensato che la sua vita così, non servisse a niente,” si asciuga una lacrima e mi sorride.
“Poi ho capito che dovevo imparare altre abilità, ho capito che mio figlio sa apprezzare i mille modi diversi in cui gli accarezzo la schiena o lo faccio dondolare sull’amaca del giardino, e, anche se non mi risponde, posso portare piacere nella sua vita”.
La disabilità ci obbliga a fare i conti con modi diversi di stare al mondo e chi riesce nel difficile compito di stare accanto a un figlio, spesso ha imparato nuovi linguaggi e soprattutto una nuova scala di valori. La bellezza, la felicità, i traguardi non sono quelli del mondo ma sono quelli del proprio mondo.
Sensazioni, percezioni, sguardi, sostituiscono parole e gesti sofisticati, l’amore viene trasmesso in modo spesso singolare ma non per questo meno pieno o meno degno.
Chi sa stare accanto ad un figlio disabile ha avuto quasi sempre un grande coraggio: ha scelto di aprirsi agli altri, di aiutare o chiedere aiuto. E, sebbene nella mente di chi vive nella sofferenza, possa sembrare strano che questo faccia la differenza, quasi sempre la fa.
Spero che questo articolo possa essere per te uno spunto per riflettere e ,se credi possa aiutare qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se ti senti sopraffatto e impotente chiedi aiuto a un amico, a uno psicologo, a un collega: potrebbe essere la cosa più utile che fai per tuo figlio.
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L’esperienza del lutto nella vita dei bambini: tre cose da evitare
Accade spesso che, proprio nell’infanzia, quella parte dell’esistenza in cui da poco ci si è affacciati alla vita, i bambini si trovino a fare esperienza della morte di una persona cara.
È un momento difficile, anche per gli adulti, che spesso hanno mille dubbi e non sanno come comportarsi di fronte a un evento che mette in moto emozioni intense e dolorose.
I bambini cominciano a comprendere il concetto di morte tra i quattro e i cinque anni; da questa età, infatti, la loro mente mette a fuoco cosa significhi “non esserci più per sempre”.
Più che in altre circostanze, in caso di lutto, è fondamentale valutare una molteplicità di variabili prima di dare consigli e indicazioni utili ad affrontare la situazione
Voglio, tuttavia, farti riflettere su alcuni atteggiamenti e comportamenti, dettati dal buonsenso e molto diffusi, che si sono dimostrati controproducenti perché non proteggono il bambino né rendono la sua esperienza meno dolorosa e, anzi, possono contribuire ad aumentare la confusione e il disagio.
Il copione a cui frequentemente si assiste è quello che vede genitori e familiari far finta di nulla e nascondere l’evento luttuoso al bambino, in attesa di trovare il momento propizio per dare la comunicazione.
Questa recita, il più delle volte mal gestita, può andare avanti per giorni e, in questi casi, sebbene la morte non venga comunicata, la sua presenza si avverte in modo tangibile. L’atmosfera in cui il bambino vive è tesa, il non verbale di chi gli sta attorno diventa terribilmente incongruente (come sempre accade quando vogliamo celare o camuffare emozioni intense), le routine cambiano inaspettatamente (spesso i bambini vengono momentaneamente affidati a zii, nonni, parenti, amici), il contesto diventa indecifrabile e carico di angoscia, soprattutto perché viene preclusa la possibilità di dare un senso agli eventi.
Bugie poco credibili vengono inventate per spiegare l’assenza di chi è venuto a mancare. Inoltre, in molti casi, anche ai bambini più grandi, viene impedito di partecipare ai funerali che, invece, rappresentano riti di passaggio che aiutano e facilitano l’elaborazione del lutto.
Un altro atteggiamento che si osserva in caso di lutto e che non aiuta ad elaborare il dolore è quello che vede gli adulti impegnati a non far trasparire emozioni negative in presenza del bambino.
La morte della persona cara viene comunicata ma ci si astiene dal piangere, dal mostrarsi tristi e dal manifestare i propri sentimenti. La sofferenza viene vissuta privatamente dagli adulti che, in presenza del bambino, cambiano discorso, accennano sorrisi, fanno finta che nulla sia accaduto. Questi comportamenti, ovviamente messi in atto con le migliori intenzioni, creano un’ambiente che non permette di esprimere le proprie emozioni. “ Se tutti fanno così è la cosa giusta da fare”, questo è il pensiero del bambino, che può sentirsi in colpa o in difficoltà per le emozioni intense che si trova a vivere.
Sebbene scene di tensione e disperazione siano da evitare, esprimere e far esprimere ai bambini il dolore e la tristezza crea connessione e, soprattutto, permette la consolazione. I bambini che vedono gli adulti esprimere ciò che provano si danno il permesso di fare lo stesso e, così facendo, ritrovano prima e più facilmente una condizione di serenità.
Per finire voglio mettere in evidenza un ultimo comportamento disfunzionale che spesso viene messo in atto anche quando la persona morta rappresenta un affetto significativo per il bambino: l’oblio.
Dopo l’evento luttuoso si evita di nominare o di ricordare la persona scomparsa.
Il defunto è come se non fosse mai esistito: una fitta coltre di nebbia avvolge il morto e la relazione avuta con lui.
Questo per un bambino può essere molto doloroso: soprattutto in caso di perdite significative mantenere un legame è importante; quando non c’è più la possibilità di avere un futuro con la persona che si ama, mantenere il ricordo, nominare il genitore, il nonno, il fratello che non ci sono più, poter parlare di loro equivale a riconoscere e portare nel presente il valore di queste relazioni significative.
Permettere alle persone che ci hanno lasciato di farci compagnia con il loro ricordo, di ispirarci con il loro insegnamento, di sostenerci con il calore dell’affetto che ci hanno donato è un modo per riempire di significato un’assenza che, soprattutto all’inizio, può essere molto dolorosa.
Mi auguro che, se stai affrontando un lutto che coinvolge anche un bambino, questo articolo ti sia stato utile per capire cosa evitare di fare.
Se pensi che quello che ho scritto possa essere di aiuto a qualcuno che sta attraversando un periodo difficile ti chiedo di condividerlo.
Ricordati che, se hai dubbi su come gestire la situazione o se il dolore è diventato insopportabile, chiedere una consulenza psicologica è la cosa migliore che tu possa fare.
Se vuoi contattarmi sarò felice di aiutarti.
Per approfondire
Sparaco, S. (2013). Nessuno sa di noi. Milano. Giunti Editore
Verardo, A. R., Russo, R., (2006). Tu non ci sei più e io mi sento giù. Associazione EMDR Italia
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“Aiuto è ora dei compiti!” Consigli ai genitori per semplificarsi la vita
Negli ultimi vent’ anni i compiti a casa sono divenuti un fardello sempre più faticoso non tanto per gli studenti quanto per i genitori.
A partire dalla scuola primaria, i genitori sono diventati primi attori nello svolgimento dei compiti dei propri figli, con un iper coinvolgimento emotivo ed energetico senza precedenti.
D’altra parte i sistemi tecnologici ormai in uso in tutte le scuole (registri elettronici, diari virtuali, chat di classe) rendono impossibile per gli studenti sfuggire al controllo genitoriale: come in un grande fratello il genitore può essere informato in tempo reale su ciò che è successo in classe, su ciò che è stato assegnato per casa, sulle date di interrogazioni e verifiche a cui il proprio figlio deve arrivare preparato.
Questo ampliamento del controllo sulla vita scolastica dei figli ha però causato degli effetti paradossali, dal momento che l’impegno e l’autonomia degli studenti sono sensibilmente diminuiti.
In questo articolo voglio darti alcuni suggerimenti su come comportarti rispetto ai compiti a casa.
Nulla dies sine linea, sosteneva anticamente Plinio il Vecchio, sottolineando come fosse necessario applicarsi ogni giorno nella scrittura; questo motto potrebbe tranquillamente essere applicato allo studio e alla necessità di considerarlo una abitudine quotidiana.
Le abitudini e le routine, soprattutto quando un bambino inizia qualcosa di nuovo, sono fondamentali: scandiscono i tempi, semplificano il lavoro, allenano l’attenzione e fanno sentire meno la fatica.
I compiti dovrebbero diventare per tuo figlio una routine, con ritualità precise, a cui dedicare più o meno tempo, in relazione all’età.
È utile predisporre uno spazio dedicato e scandire l’inizio e la fine dei compiti con dei segnali precisi (es: si inizia dopo la merenda oppure appena si torna a casa, o ancora si inizia prendendo il diario; quando si è finito si sistema lo zaino, oppure si fa merenda). Soprattutto nei primi anni di scuola il tempo da riservare allo studio dovrebbe essere, anche se breve, quotidiano.
Spesso invece i bambini, soprattutto quelli che finiscono nel pomeriggio l’orario scolastico e che non hanno pertanto compiti assegnati, si trovano a sostenere soltanto nei week end lunghe ed estenuanti maratone di studio insieme ai genitori: a volte si studia la domenica mattina prima della gita fuori porta, altre volte la sera tardi, dopo pomeriggi passati tra feste o riunioni di famiglia, con il risultato che il tempo dei compiti diventa un terribile dovere da inserire nei giorni del riposo. Dovere a cui i bambini non sono allenati e a cui non riescono ad abituarsi a causa dello sforzo discontinuo che viene chiesto loro.
Un secondo aspetto importante da prendere in considerazione riguarda il metodo di studio e cioè come aiutare tuo figlio a svolgere i compiti in modo efficace.
Poiché l’obiettivo da perseguire è rendere tuo figlio autosufficiente, eseguire i compiti insieme a lui, diventare esperto in storia, geografia e matematica, in sostanza ricominciare a studiare come se anche tu dovessi frequentare nuovamente le elementari le medie, e in alcuni casi ahimè, anche le superiori, non sono comportamenti ottimali.
Quello che invece devi imparare a fare è alternare sostegno e autonomia, riducendo progressivamente il primo e incentivando la seconda.
Come fare? Osserva, spiega, sostieni e controlla.
Osserva le inclinazioni e i comportamenti di tuo figlio: se fa da solo, anche con qualche errore, lascialo sperimentare e, solo quando avrà finito, lo aiuterai a comprendere dove ha sbagliato. Se invece fa fatica, guidalo all’inizio del compito (spiegandogli ciò che deve fare), verifica ogni tanto come sta andando e controlla alla fine quello che è riuscito a fare. Lasciagli sempre uno spazio, anche piccolo, per provare da solo. All’inizio puoi farlo restando in silenzio accanto a lui poi, progressivamente, puoi allontanarti per dedicarti ad altro e tornare, in un secondo momento, a controllare gli esiti del suo lavoro.
Promuovi la tenacia e permetti lo sbaglio. Non puntualizzare e non correggerlo in ogni momento ma piuttosto lodalo perché non si arrende: “bravo, prova ancora!”.
Seppur inizialmente faticoso, questo metodo allena tuo figlio a misurarsi con le sue capacità, facendogli percepire l’importanza dell’impegno.
È proprio il senso di competenza e capacità che devi puntare a far nascere in tuo figlio: non appena avrà imparato a portare a termine in autonomia attività facili, sfidalo, in modo divertente, per incitarlo a fare meglio.
“Vediamo cosa sai fare oggi”, “Chissà in quanto tempo riesci a finire il copiato”, “Facciamo una scommessa: a quante domande riuscirai a rispondere correttamente?”.
Sentirsi autoefficaci e competenti, infatti, è una sensazione molto piacevole e rappresenta una delle motivazioni più potenti a impegnarsi nello studio.
L’ultimo punto su cui vorrei che riflettessi riguarda proprio la relazione con lo studio e la motivazione. Sebbene possiamo promuovere e incentivare, soprattutto nei più piccoli, la motivazione e l’impegno, la relazione con lo studio rispecchia spesso inclinazioni, scelte e preferenze individuali. Rispetta le inclinazioni e le preferenze di tuo figlio; il suo percorso è unico e deve portare allo sviluppo delle sue potenzialità e capacità: evita di viverlo come un tuo riscatto o come misura del tuo valore.
Prendi progressivamente le distanze, osserva senza intervenire e sii disponibile solo in caso ti vengano chiesti aiuto o consigli.
Ricordati che, come diceva Seneca, non impariamo per la scuola ma per la vita, per cui la cosa più importante che puoi fare per tuo figlio è allenarlo a prendersi le sue responsabilità e ad esercitare in autonomia la libertà che gli appartiene.
Spero che questo articolo ti sia piaciuto e, se pensi che possa essere utile per qualcuno che conosci, ti invito a condividerlo. Se invece hai bisogno di una consulenza perchè il rendimento scolastico di tuo figlio è diventato un problema contattami e sarò felice di aiutarti.
PER APPROFONDIRE

Ho una storia d’amore… come devo comportarmi con mio figlio?
In passato i figli erano testimoni unicamente dell’amore, più o meno autentico, dei genitori.
I casi in cui padre o madre si rifacevano la vita con altri compagni erano limitati per lo più ai lutti.
Oggi le cose sono cambiate: le separazioni, anche con figli piccoli, sono più frequenti e capita pertanto che, uno o entrambi i genitori, si innamorino di nuovo e decidano di iniziare una relazione.
In queste circostanze gli interrogativi su come comportarsi sono tanti e spesso sono accompagnati dal timore di fare qualcosa che possa far soffrire il proprio figlio o minacciare la sua serenità.
Una delle prime cose da sapere a questo proposito è che un bambino vive le esperienze in modo diverso da come le vivrebbe un adulto. Per esempio, il principio per cui comprendere cognitivamente qualcosa ci aiuta ad affrontarla è un modo di ragionare tipicamente adulto (non sempre produttivo peraltro!) che però non corrisponde al sentire dei bambini.
I bambini comprendono ciò che sperimentano e, attraverso le emozioni e le sensazioni, arrivano a formarsi un’idea sulle cose.
Per cui se tuo figlio non ha mai visto il tuo compagno o lo vede di rado, spiegargli per filo e per segno il ruolo di questa persona nella tua vita, il fatto che vi volete bene, che non sostituirà il papà e cose simili non è detto che lo aiuti a comprendere.
I bambini capiscono meglio ciò che prima vivono.
Tra una spiegazione e una esperienza prediligi sempre l’esperienza.
Passare del tempo con tuo figlio in compagnia del tuo partner, inizialmente con altre persone e poi magari voi tre soltanto, gli farà concretamente provare che con voi sta bene e questo gli darà quella serenità che non è possibile infondere solo con le parole. Vedere, inoltre, che la mamma o il papà continuano a riservargli attenzione e coccole sono fatti che lo convinceranno più di mille rassicurazioni.
Sii graduale nell’esporlo a nuove situazioni e ricorda che i bambini hanno tempi più lunghi degli adulti.
Se tuo figlio ti pone delle domande o ti chiede delle spiegazioni rispondi in modo chiaro, sintetico e con un linguaggio appropriato alla sua età.
Non esagerare, invece, nel fargli domande per capire quello che pensa del tuo nuovo partner; osserva piuttosto come si comporta in sua compagnia, come vive nella quotidianità e le emozioni che manifesta. Il suo comportamento, in particolar modo quello non verbale, può darti tante informazioni.
Infine affronta giorno per giorno le situazioni che si presentano e evita di pre-occuparti per quelle che potranno essere le evoluzioni future della tua storia (cosa succederà quando andremo a vivere insieme? Faremo un altro figlio? Il bambino lo accetterà?).
Queste domande ,poiché non hanno una risposta certa, producono soltanto l’effetto di avvolgerti in una spirale di dubbi e di angoscia che ti distoglie dal vivere il presente.
Per quanto sia difficile da accettare, la maggior parte dei problemi non può essere risolta in anticipo e, poiché la vita ha molta più fantasia di noi, le difficoltà che spesso ci troviamo a gestire non sono quasi mai quelle che avevamo immaginato.
Sii felice di quello che stai vivendo e ricorda che la tua serenità influenza positivamente la vita del tuo bambino.
Spero che questo articolo ti sia piaciuto e ,se pensi che possa essere utile a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se invece hai una relazione e hai bisogno di un aiuto per capire come come comportarti con tuo figlio, contattami e sarò felice di aiutarti.
PER APPROFONDIRE
Mariotti, R., Pettenò, L. (2015) Famiglie allargate. Consigli pratici per una convivenza serena. Trento. Erickson
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Tre suggerimenti per gestire le paure dei bambini
La paura è una delle emozioni di base più sperimentate dagli adulti e anche dai bambini.
Si può avere paura di qualunque cosa tanto che è possibile affermare che esistono tante paure quante se ne possono inventare.
Molte paure dei bambini sono legate all’età e a specifiche fasi dello sviluppo.
Tra le paure più frequenti troviamo la paura di separarsi dalle figure significative, la paura di dormire soli, la paura del buio, di particolari animali o di particolari luoghi, dei mostri, la paura dell’acqua, etc.
Sebbene per stabilire come comportarsi sia importante valutare una serie di aspetti (le dinamiche relazionali, la situazione specifica e l’intensità e la frequenza con cui la paura si manifesta) è possibile, tuttavia, dare alcune indicazioni di carattere generale su cosa fare e cosa evitare.
Quando tuo figlio ha paura una delle prime cose che fa è guardare te e i tuoi comportamenti.
I bambini sono molto sensibili nel cogliere le reazioni dei genitori e in questo senso l’adulto può essere un regolatore oppure un amplificatore delle emozioni che il bambino sta vivendo.
Molto spesso ci preoccupiamo di quello che diciamo ai bambini e quasi mai prestiamo attenzione a quello che comunichiamo senza l’uso delle parole.
La postura, lo sguardo, il tono e il volume della tua voce, la gestualità sono i primi segnali che tuo figlio riconoscerà e sono per questo aspetti che devi imparare a modulare per aiutarlo a superare ciò che lo spaventa.
Rimanere calmo, parlare con un tono pacato, accennare un sorriso, avere una gestualità morbida e respirare in modo lento e controllato sono comportamenti non verbali che rappresentano tranquillanti naturali per tuo figlio.
Un’altra cosa che può esserti utile è sapere che la paura per certi versi assomiglia all’ amore, non si lascia domare dalla razionalità e rifugge le spiegazioni.
D’altra parte se anche tu hai delle paure avrai sperimentato che chi prova a convincerti che non hai nulla da temere spesso ha il solo effetto di farti sentire inadeguato oltre che impaurito.
Con i bambini è lo stesso: non riuscirai a calmare tuo figlio rassicurandolo, né eliminerai i suoi timori mostrandogli che la sua paura è irrazionale, che i fantasmi non esistono, che con i braccioli non si può annegare e che nel suo letto non ci sono i mostri; anzi se continuerai in questa direzione la reazione che otterrai sarà paradossale: più proverai a rassicurarlo più sentirà che c’è qualcosa da temere, più proverai a sminuire le sue paure più quest’ultime si ingigantiranno.
Una cosa che puoi provare a fare, invece, è sconfiggere la paura su un piano fantastico e metaforico.
Ogni giorno riservati uno spazio di dieci minuti per far esprimere a tuo figlio ciò di cui ha paura nei minimi dettagli. Chiedigli di raccontarti cosa teme, cosa prova e non censurare la sua fantasia.
Utilizza poi le informazioni raccolte per costruire una storia dove grazie ad eroi, superpoteri, fate e maghi portentosi la paura riesce ad essere superata e il protagonista stesso diventa più grande e più forte.
Al di fuori di questo spazio evita di parlare con tuo figlio di ciò che lo spaventa.
Ricordati, infine, che far affrontare a tuo figlio forzatamente ciò che teme non è una buona strategia: potrebbe rimanere terrorizzato e vivere con ansia crescente la sua fobia. D’altra parte anche comportamenti eccessivamente protettivi che gli consentono di evitare costantemente l’oggetto della sua paura possono col tempo rafforzare la percezione fobica e il senso di impotenza.
Quello che ti consiglio di fare invece è di procedere con gradualità nell’avvicinarlo o nel fargli affrontare ciò che lo atterrisce: in questo caso tanta pazienza e piccoli passi sono due ingredienti fondamentali.
I bambini, inoltre, amano il gioco, sono curiosi e attratti dalle novità per cui è molto utile, quando possibile, per superare ciò che li spaventa prediligere modalità indirette che spostano l’attenzione del bambino e in questo modo facilitano l’azione.
Se tuo figlio rifiuta di farsi il bagno in mare, farlo giocare a riva, magari con degli amichetti, è un ottimo modo per condurlo in modo progressivo e indiretto a familiarizzare con l’acqua.
Prima di lasciarti voglio farti riflettere sul fatto che ,quando la paura è episodica, così come viene se ne va, e il miglior atteggiamento è quello di osservare senza intervenire per evitare di trasformare una difficoltà momentanea e isolata in un problema.
Se invece la paura compare con una certa frequenza o hai osservato che si generalizza in più situazioni e ti sembra che tuo figlio non faccia progressi nel superarla allora è opportuno chiedere il consulto di un esperto per evitare che la situazione peggiori.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e, se pensi che possa interessare a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se, invece, vuoi chiedere un parere su come affrontare le paure di tuo figlio chiamami e sarò felice di aiutarti.
PER APPROFONDIRE
Lawrence J.C., (2017). Le paure segrete dei bambini. Universale Economica Feltrinelli
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