
CONOSCI L’EMOZIONE DELLA VERGOGNA? COSA DEVI SAPERE COME GENITORE
Oggi voglio parlarti della vergogna e del perché è importante che tu conosca questa emozione, nonostante se ne parli poco.
La vergogna è spesso presente nei comportamenti dei bambini ma, in alcuni casi, può essere un’emozione ingombrante e se mal gestita, può diventare una compagnia spiacevole anche da adulti.
A differenza delle emozioni primarie, (paura, tristezza, gioia, rabbia, disgusto) che sono presenti sin dai primi mesi di vita, la vergogna si sviluppa tra i due e i quattro anni di età e presuppone la capacità del bambino di percepire la valutazione di sé da parte dell’altro: è questo il motivo per cui la vergogna viene considerata un’ emozione sociale.
Al pari delle altre emozioni anche la vergogna ha una funzione specifica e serve a garantirci un vantaggio a livello evolutivo: ci permette di vivere ed essere accettati nel gruppo sociale, nella comunità e nella famiglia.
La vergogna, infatti, è nata per ricordarci che alcuni comportamenti e atteggiamenti vanno evitati se non vogliamo essere derisi, respinti o puniti, in una parola se non vogliamo perdere il nostro mondo di relazioni.
Quando ci vergogniamo per qualcosa le reazioni fisiologiche che si innescano possono essere anche molto intense e alcune di queste sono visibili agli altri (rossore in volto, sguardo basso, corpo ripiegato su se stesso), altre sono percepite solo dalla persona che vive l’emozione (sensazione di voler scomparire o sprofondare, sensazione di essere bloccati, percezione di vuoto sotto il diaframma).
Provare vergogna in alcune situazioni è normale (quando facciamo qualcosa che sappiamo andare contro regole o consuetudini, quando veniamo biasimati o ripresi davanti ad altri, quando ripensiamo a azioni compiute di cui non andiamo fieri), tuttavia se ci accorgiamo che questa emozione ci accompagna troppo spesso forse qualcosa non va come dovrebbe.
Come genitore può esserti utile sapere che uno stile educativo improntato alla critica, alla svalutazione e al biasimo genera spesso nei bambini vissuti di vergogna.
Quando ti rivolgi a tuo figlio, soprattutto se è piccolo, non è tanto rilevante il contenuto di quello che dici quanto piuttosto il tono che utilizzi e lo sguardo che hai. Consiglio sempre ai genitori di prestare molta attenzione alla loro comunicazione non verbale e paraverbale: potresti avere modi e toni eccessivamente severi (o peggio ridicolizzanti) senza accorgertene e questo è possibile che accada soprattutto se tu stesso sei stato cresciuto in questo modo.
Evitare il biasimo e la svalutazione non vuol dire non poter riprendere tuo figlio per alcuni comportamenti o atteggiamenti ma imparare a farlo con una modalità costruttiva.
Quando un bambino viene frequentemente ridicolizzato, biasimato o criticato può cominciare a sviluppare l’idea che qualcosa dentro di sé sia sbagliato, che non sia meritevole di amore o che sia incapace o inadeguato.
Crescendo il biasimo e la critica diventano una voce interna che può limitare in mille modi la vita di tuo figlio.
In alcuni bambini la vergogna può alternarsi alla rabbia con manifestazioni anche piuttosto forti, che esplodono nei momenti in cui si sentono frustrati e si valutano incapaci e inadeguati.
Altri bambini temono tanto la vergogna da diventare bravissimi ed eccellere a scuola, nello sport, nella musica, ma crescono portando dentro se stessi una voce critica che si affaccia con forza in caso di fallimenti, anche piccoli, e che può destabilizzare l’equilibrio in adolescenza o anche nella vita adulta.
In molti casi la vergogna si nasconde in profondità e pur non impedendo alle persone di vivere la loro vita le fa procedere con il freno a mano tirato, ostacolando di fatto la piena espressione delle loro potenzialità.
Come gestire allora questa emozione?
Se tuo figlio si vergogna molto spesso e ti sembra in eccessiva difficoltà nelle situazioni espositive o se addirittura in alcune circostanze ti sembra che non agisca o non si esponga per vergogna, chiedi un consulto specialistico per inquadrare meglio la situazione e capire come intervenire.
Se invece la vergogna appare occasionalmente, quello che puoi fare quando accade è sintonizzarti con tuo figlio e stabilire con lui una connessione. La vergogna è un’emozione che ci disconnette ed è questo che, come genitore, dovresti impedire.
Sentirci accolti, benvoluti e capiti è un antidoto potentissimo contro questa emozione che, come abbiamo visto, nasce per ricordarci che abbiamo fatto qualcosa per cui potremmo essere respinti.
A seconda dell’età di tuo figlio, trova un modo per instaurare con lui una vicinanza fisica: se te lo permette abbraccialo e preoccupati di stabilire un contatto oculare.
Il contatto oculare è uno strumento molto potente per entrare in connessione; senza insistenza chiedi a tuo figlio di raccontarti ciò di cui si vergogna e, nei limiti del possibile, fai in modo che non rinunci a confrontarsi con le situazioni per non sentirsi inadeguato o incapace.
Tornerò presto a parlarti della vergogna perchè gli aspetti da approfondire sono tanti; nel frattempo spero che questo articolo ti sia piaciuto e se pensi possa essere utile a qualcuno che conosci ti chiedo di condividerlo.
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Come sfruttare la consulenza psicologica a distanza ai tempi del Coronavirus
Nell’ultimo mese a causa dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ho ricevuto molte domande sulla consulenza psicologica a distanza: le persone vogliono avere più informazioni su come si svolge e desiderano sapere se potranno trarne gli stessi benefici ottenibili da un incontro in presenza.
In questo articolo affronto alcuni punti fondamentali per fare un po’ di chiarezza sul tema.
La prima cosa da sapere è che, analogamente a quanto accade quando ti rechi nello studio di professionista, anche nella consulenza a distanza li motivi per cui chiedi aiuto possono essere molteplici (es: ansia, panico, pensieri ricorrenti e disturbanti, problemi con il cibo, depressione, difficoltà con il partner, con i figli).
Una volta formulata la tua richiesta sarà lo specialista a valutare la tua situazione e a scegliere come guidarti per farti raggiungere l’obiettivo che desideri costruendo un percorso adatto alle tue esigenze in termini di frequenza e durata.
In alcuni casi gli appuntamenti avranno cadenza settimanale , in altri quindicinale, in altri ancora sarà opportuno prevedere incontri più brevi ma ravvicinati. Ogni terapeuta ha un suo modo di lavorare che adatta alle esigenze della persona e della specifica situazione.
I dubbi che le persone nutrono riguardo a questa modalità di svolgimento della consulenza riguardano principalmente l’efficacia dell’intervento, la difficoltà di utilizzare la tecnologia necessaria e la possibilità di mantenere la privacy.
Su questi punti voglio rassicurarti e allo stesso tempo essere sincera e trasparente.
Comincio subito col dirti che, in alcuni casi, (seri ma limitati) l’intervento a distanza non è consigliato. Ci sono delle problematiche, infatti, che richiedono la presenza fisica dello psicoterapeuta e che non possono essere gestite con la presenza virtuale, che paradossalmente potrebbe peggiorare il quadro clinico. La valutazione di queste situazioni spetta sempre allo specialista.
Per la maggior parte delle situazioni, invece, un intervento a distanza è efficace e risulta in ogni caso preferibile all’assenza di supporto, soprattutto laddove il disagio risulti marcato o sia peggiorato nel tempo.
Un consulto a distanza può essere svolto con varie modalità che è bene esplorare, soprattutto in questo periodo di difficoltà.
Se hai bisogno di aiuto, come potrai leggere di seguito, basta veramente poco per poter ricevere un supporto.
Se hai una connessione internet e uno schermo di grandi dimensioni, come quello di un computer o un di un tablet, sei nella condizione ottimale.
Ci sono applicazioni, facilmente scaricabili come Skype, che permettono un’esperienza attraverso il video molto gradevole. Con questi mezzi è possibile non solo proseguire una terapia già iniziata ma anche iniziarne una nuova in modo piuttosto agevole. Disponendo di questi strumenti molte persone ben prima di questa emergenza hanno scelto la consulenza a distanza ritenendola uno strumento che ben si concilia con le proprie esigenze personali (spostamenti di lavoro frequenti, possibilità di scegliere professionisti su tutto il territorio nazionale, etc.).
Se non possiedi un pc o un tablet o non hai in casa una connessione wi-fi, ti restano comunque altre possibilità e non devi abbandonare l’idea di farti aiutare; con i giga del telefono e con l’applicazione whatsapp, per esempio, puoi effettuare videochiamate sicure e, nella maggior parte dei casi, questo è sufficiente per poter effettuare sedute con uno specialista.
Se non hai uno smartphone o un telefono con abbonamento internet ci sono associazioni e professionisti privati che possono ascoltarti e supportarti in questo momento di emergenza e a cui puoi rivolgerti con una semplice telefonata.
Veniamo ora al problema della privacy.
Uno dei motivi per cui la gente va da uno psicologo è sicuramente quello di poter avere uno spazio, fisico e mentale, tutto per sé. In questo senso lo studio del professionista rappresenta un luogo sicuro e protetto e rinunciarvi può essere faticoso.
Molte persone mi dicono di non avere nella propria casa, in questo periodo, uno spazio fisico dove “sentirsi” protetti e liberi di parlare.
Questo può essere un problema che però nella maggior parte dei casi, possiamo risolvere,
Personalmente ho ampliato gli orari in cui ricevo (inizio la mattina molto presto, dalle 6 fino alla sera alle 23 ); in questo modo quando il resto della famiglia dorme la persona può avere più facilmente un po’ di riservatezza.
Ci sono però altre soluzioni che puoi provare a praticare per avere la tua privacy: puoi effettuare la consulenza in macchina o sfruttare il balcone di casa. Alcuni miei pazienti più determinati, e direi anche fantasiosi, hanno utilizzato la cantina o la terrazza condominiale.
E’ ovvio che sono soluzioni temporanee ma possono rivelarsi estremamente utili in questo particolare momento.
Ricordati che, anche se in questo momento non puoi permetterti un professionista privato, esistono tante associazioni che offrono sostegno psicologico gratuito e che puoi contattare.
Insomma, se ti senti in difficoltà e non riesci più a gestire il disagio, anche se sei in casa e non puoi uscire non rimandare oltre: chiedi aiuto! Intervenire tempestivamente è importante per evitare l’aggravarsi dei sintomi e il peggiorare delle situazioni.
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Se invece sei tu ad aver bisogno di aiuto contattami e sarò felice di lavorare con te o di indirizzarti ad associazioni che offrono servizi psicologici gratuiti.
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Vuoi migliorare il legame con tuo figlio? Il metodo H.E.L.P. può aiutarti.
In questo articolo voglio parlarti del metodo HELP, divenuto famoso negli ultimi anni grazie al best seller “il linguaggio segreto dei bambini” scritto da Tracy Hogg, una consulente di parent training molto famosa in Inghilterra e scomparsa da qualche anno.
L’autrice, nella sua lunga pratica con le famiglie e le scuole, ha individuato dei comportamenti virtuosi che sembra aiutino a creare un buon legame tra genitore e figlio e allo stesso tempo incentivino l’autonomia e l’indipendenza del bambino.
Ho scelto di parlarti di questo metodo perché richiama molti principi e molte indicazioni presenti nei miei articoli e ne rappresenta una buona sintesi.
Sebbene il metodo HELP sia utilizzato con i bambini piccoli (1/3 anni), ritengo che i principi indicati possano essere adattati alle diverse età e, con le dovute differenziazioni, possano costituire una utile check list per verificare in che modo ti rapporti con tuo figlio.
Vediamo ora i 4 punti del metodo:
Hold yourself back ovvero fai un passo indietro
Si tratta di un consiglio applicabile in vari modi ma estremamente valido indipendentemente dall’età.
Stare davanti a propri figli per indicargli la strada è piuttosto comune. Questa abitudine può essere declinata in vari comportamenti, che hanno come obiettivo ridurre le difficoltà e soddisfare i bisogni dei bambini.
Non c’è nulla di male in questo ed anzi direi che è necessario per garantire quel calore e quella protezione che dovrebbe respirarsi in ogni nucleo familiare.
Il problema è quando l’atteggiamento con cui ci relazioniamo è sempre quello del supporto, della cura o della risoluzione dei problemi; in questi casi spesso invadiamo i confini dei nostri figli che non hanno uno spazio, anche piccolo, in cui stare e fare da soli.
Fare un passo indietro vuol dire passare un po’ di tempo nella vita di tuo figlio come semplice osservatore, come colui che guarda senza intervenire e che si concede un po’ di tempo per vedere cosa succede.
Che tuo figlio stia muovendo i primi passi o che si trovi ad affrontare le prime difficoltà scolastiche o i primi tormenti amorosi non cambia: stare a guardare per un po’ dalle retrovie prima di agire può rivelarsi una buona strategia perché comporta un cambio di prospettiva. Da dietro la visuale è più ampia e puoi vedere cose che dalla solita posizione di apripista non riusciresti a scorgere.
Encourage exploration ovvero sprona tuo figlio a esplorare il mondo
L’esplorazione richiama il tema dello “sconosciuto”. Spesso per esplorare è necessario allontanarsi da dove siamo e spingerci in territori nuovi. Mantenere uno spazio di novità e di esplorazione è ciò che ci mantiene vivi anche da adulti e dovremmo coltivare questa abitudine anche nei bambini.
Non stare con il fiato sul collo di tuo figlio. Ricordati che ogni volta che gli permetti di fare qualcosa che non ha mai fatto, di stare dove non è mai stato, di vedere ciò che fino ad oggi non ha mai visto gli consenti di sperimentare emozioni nuove e di costruire nuove conoscenze e abilità.
Per un bambino piccolo quasi tutto è nuovo e ogni giorno è una scoperta, un genitore deve solo facilitare questo processo naturale; quando si cresce è estremamente importante che questa spinta verso il nuovo venga mantenuta. Non è necessario diventare pionieri in chissà quale spedizione basta, per esempio, cercare il contatto con persone, idee, contesti diversi da quelli che frequentiamo abitualmente.
Più versioni di realtà fai conoscere a tuo figlio più è probabile che crescendo sia in grado di gestire quello che la vita gli riserverà.
Limit ovvero poni dei limiti.
Se segui la mia pagina troverai più di un articolo sull’importanza di porre dei limiti e di fornire delle regole ai bambini di ogni età e agli adolescenti. Saperlo fare è un’abilità che si acquisisce e che ha molto a che vedere con la maturità emotiva di un genitore.
Può capitare che dietro a questa incapacità, infatti, ci siano difficoltà dovute a emozioni molto forti come rabbia e paura. Prendere consapevolezza di questo può essere un primo passo per aiutarti ad essere più fermo. Un secondo aiuto può venire dal rispondere a questa domanda: quale è il motivo per cui non riesco a dare o a far rispettare limiti e regole a mio figlio? Poni attenzione a quello che ti racconti, nella tua narrazione potrebbero esserci utili spunti da approfondire.
Praise ovvero loda tuo figlio
Le lodi non sono l’equivalente di baci e carezze (per quest’ultime non ci sono limitazioni né istruzioni da dare) mentre per le lodi è importante avere a mente qualche principio di base.
In primo luogo devono essere vere, cioè sottolineare qualcosa di buono che vostro figlio realmente fatto ha fatto, n secondo luogo devono essere sintetiche, “bravo” “ottimo lavoro” “ben fatto” sono modi semplici ma incisivi per esprimere apprezzamento; infine è necessario che siano accompagnate dal richiamo al comportamento che vostro figlio ha messo in atto e che volete elogiare “Bravo, hai apparecchiato molto bene la tavola”.
Rinforzare i comportamenti positivi di tuo figlio e ogni tanto richiamarli alla memoria, magari anche la sera prima che di addormentarlo, come suggerisce Tracy Hogg, è una buona strategia per imprimere nella sua mente episodi di successo che, come la psicologia ci dimostra, sono uno degli elementi per la costruzione di una buona autostima.
Per approfondire.
Hogg., T. (2002). Il linguaggio segreto dei bambini. Oscar Mondadori.
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Ero un genitore limitato dagli attacchi di panico. Quello che avrei voluto sentirmi dire.
Oggi ho scelto di dare voce a una mia paziente, che ha da poco concluso vittoriosamente la sua battaglia con il panico e che ha deciso di raccontare la sua esperienza per essere di aiuto a chi si trova a combattere e sente di non avere più armi a disposizione.
Paola (non è questo ovviamente il suo nome) è una donna e mamma di 48 anni, che ha convissuto con il panico per venti lunghi anni. Ha due figli di tredici e otto anni
Raccontaci come è iniziato tutto
Il mio incontro con il panico avviene su un aereo a 28 anni, durante un normale viaggio di lavoro. Tutto inizia con una forte tachicardia e un senso di giramento di testa. Penso che mi sto sentendo male, comincio a vedere in modo sfocato, mi sembra di non riuscire a controllare le mie azioni e ho paura di impazzire e perdere i sensi. Non ho la forza di chiamare aiuto e, scesa a terra, non riesco a presenziare alla riunione di lavoro.
Cosa è successo dopo? Ti è capitato ancora?
Mai più. Non ho mai più provato quelle terribili sensazioni ma il ricordo di quell’evento ha condizionato il resto della mia vita, trasformandomi in una persona ansiosa e insicura.
Non solo non ho più volato (fino a due mesi fa) ma per le mie paure sono arrivata a lasciare il mio lavoro di traduttrice, mi sono rinchiusa a casa con un telelavoro sottopagato, ho allontanato molti dei miei amici e ho condizionato la vita di mio marito e dei miei figli.
Perché hai aspettato così tanto per andare in terapia?
All’inizio non mi ero accorta della gravità della mia situazione, e mi arrabbiavo con chi mi faceva notare che qualcosa non andava. Poi mi sono abituata alle limitazioni che le mie ansie e le mie paure mi imponevano. Avevo raggiunto un equilibrio, precario, doloroso ma da difendere. Mio marito, i miei amici, si sono adattati e io ho costruito una vita a misura dei miei limiti. Quando mi sono accorta di essere in prigione era troppo tardi, non sapevo più come uscirne.
Cosa ti ha convinto a farti aiutare?
I miei figli, anzi la più grande.
Ho sempre pensato che le paure, le preoccupazioni, le bugie dette per non mostrare agli altri le cose che non potevo fare, fossero qualcosa che toccava solo me. Sapevo di non avere la vita che avevo desiderato, ma non pensavo che i miei problemi potessero limitare o influenzare i miei figli. “L’ansia è affar mio”, mi ripetevo, fino a quando mia figlia non ha iniziato ad avere le prime difficoltà: non voleva rimanere fuori casa, si è rifiutata di andare con gli scout in gita e ha smesso di andare a scuola da sola, pretendendo che il papà la accompagnasse.
Quando ho provato a chiederle spiegazioni si è scagliata contro di me dicendo che io ero come lei e che non potevo costringerla a fare nulla.
In quel momento è come se avessi visto la realtà per la prima volta: la mia fragilità e i miei limiti stavano diventando qualcosa su cui anche i miei figli si stavano modellando. So che lei non è d’accordo dottoressa, ma io allora pensavo di essere la causa dei problemi di mia figlia.
Cosa vorresti dire ai genitori che soffrono di attacchi di panico o che sono limitati dall’ansia e dalla paura?
Vorrei dire loro di guardarsi allo specchio e, se la loro vita è limitata come lo era la mia, di correre ai ripari. Ho capito che non è importante solo quello che facciamo per i nostri figli e quello che diciamo loro, ma anche chi siamo.
Chi siamo traspare e influenza la vita di chi ci sta accanto più di quanto possiamo immaginare. Stare bene non solo è un dovere verso noi stessi ma è una responsabilità verso i nostri figli.
Qual è stato l’aspetto più faticoso della terapia?
Più di uno. Devo essere sincera. L’inizio è stato difficile, perché fare il primo passo e fissare un appuntamento con uno psicologo vuol dire non solo ammettere di avere un problema ma anche fare i conti con il fatto che abbiamo bisogno di qualcuno per uscirne.
La cosa più dolorosa però è stata prendere consapevolezza delle occasioni perse, delle cose che non ho fatto a causa delle mie paure e che non potrò fare più. A volte ancora oggi devo gestire la rabbia quando penso ai miei ultimi venti anni ma, come dice lei, dottoressa, il passato è passato e dobbiamo farci pace per costruire un futuro diverso.
Come è cambiata oggi la tua vita?
I miglioramenti sono tantissimi (poter dormire fuori, viaggiare, guidare senza nessuno accanto) ma la cosa più importante è che non mi sento più un bluff.
Prima, pur facendo tantissimo per i miei figli, avevo sempre dentro di me la sensazione di non essere una madre all’altezza, di essere difettosa, oggi invece mi sento sicura e vedo che i miei figli mi guardano in modo diverso. Questo mi infonde una grande serenità.
Ringrazio Paola per la sua testimonianza e spero che la sua voce fiduciosa possa ispirare coraggio a chi, in questo momento, sente di non avere voce per chiedere aiuto.
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Sai custodire la fantasia e la creatività del tuo bambino? Quattro indicazioni che possono aiutarti
I genitori di bambini in età prescolare spesso mi chiedono consigli su quali giochi e attività far fare ai bambini per stimolarli adeguatamente e sviluppare fantasia e creatività.
La preoccupazione è di non fornire sufficienti sollecitazioni ai propri figli o di impegnarli sempre nelle stesse attività, impedendogli così di sviluppare pienamente le loro potenzialità.
Quello che spiego in questi casi è che, soprattutto a questa età, la funzione dei genitori è soprattutto quella di preservare il modo non convenzionale e singolare con cui i bambini percepiscono la realtà e vivono ogni esperienza, perché questa modalità è implicitamente creativa e fantasiosa.
Quello che puoi fare per tuo figlio è da una parte, evitare una serie di comportamenti di censura, spesso dettati dal buon senso, che addomesticano precocemente la fantasia dall’altra, incentivare una dimensione ludica e a-logica che consente di mantenere viva la scintilla della creatività.
Di seguito voglio darti alcuni suggerimenti, come sempre molto pratici, che puoi applicare da subito, adattandoli ovviamente all’età di tuo figlio.
Gioca con ogni cosa
Non voglio convincerti a non spendere soldi nei numerosissimi giochi che oggi si trovano nei negozi specializzati e che promettono di sviluppare ogni sorta di abilità (alcuni sono davvero ben fatti, lo ammetto), ma desidero che tu sappia che giocare è una questione di atteggiamento non di oggetti.
Gioco viene dal latino iocus che significa scherzo, burla, per cui gli oggetti che utilizziamo sono degli espedienti per coltivare un habitus mentale, non sono i protagonisti assoluti del gioco.
In questo senso più un oggetto ha una finalità predefinita più saranno limitate e ripetitive le possibilità di utilizzo. Alternare pertanto giochi strutturati con oggetti della quotidianità o materiali grezzi (scatole, fili di lana, coperchi di pentole, vestiti) consente ai bambini di inventare modalità di relazione con gli oggetti inusuali e sempre diverse.
Quando giochi con tuo figlio anche parti del corpo possono diventare strumenti da impiegare in modo divertente: mani che si trasformano in animali, piedi che che si animano, voci che cambiano il loro tono abituale.
Prova a osservare: noterai che tuo figlio si attiverà in modo particolare se comincerai a giocare anche con oggetti che normalmente non fanno parte dei suoi balocchi.
Abbandona ogni tanto la struttura legata al compito, dai tempo e non soluzioni.
Molti giochi per bambini richiedono l’esecuzione di compiti strutturati (accorpare figure dello stesso colore, riconoscere forme, legare suoni a immagini), che hanno l’obiettivo di sostenere specifiche abilità. Va bene, sono utili. Spesso, tuttavia, i bambini s’immergono nel gioco in un modo che agli adulti appare privo di senso (osservano e manipolano per lungo tempo gli oggetti, compiono azioni ripetitive, ridono e si emozionano per il suono di un materiale).
In questi casi, evita di suggerire a tuo figlio come usare i suoi giochi ma lascialo immerso nel suo flusso per tutto il tempo di cui ha bisogno. La fretta è nemica della creatività. Se il gioco richiede la soluzione di un problema lascia a tuo figlio la calma per arrivarci: l’esplorazione spesso è più importante della mèta.
Capita che i bimbi un po’ più grandi utilizzino la fantasia per attribuire agli oggetti una realtà diversa da quella che hanno: asseconda questo gioco di finzione e prova anche tu a trovare analogie tra diversi oggetti.
Gioca con i cinque sensi ed esplora le meraviglie della natura
Per gli adulti essere in contatto con l’esperienza presente è un compito tra i più difficili.
I bambini, invece, sono più abituati a notare le cose e questa inclinazione va mantenuta e coltivata.
Giocare con i cinque sensi consente di esplorare la realtà prestando attenzione ad aspetti che altrimenti passerebbero inosservati.
I bambini come spiega la psicologa dello sviluppo Silvia Bonino, “fanno largo uso della sinestesia, cioè di fronte a uno stimolo sperimentano non solo la sensazione specifica tipica dello stimolo ma anche una seconda sensazione. Un bambino per esempio può dire: questo suono è viola, questa foglia odora di buio. Tali affermazioni spesso vengono censurate e sono spesso oggetto di disapprovazione da parte degli adulti.”
Giocare con i sensi vuol dire stimolare tuo figlio a evocare immagini, emozioni, sinestesie a partire dagli stimoli presenti nell’ambiente, senza censure basate sulla logica.
Un ottimo esercizio è passare del tempo nella natura e apprezzarne le meraviglie a partire da quello che vediamo, tocchiamo, udiamo. Profumi, suoni, colori stimolano i nostri sensi e attivano emozioni e sensazioni intense.
Lasciarsi andare a questo gioco ha indubbi vantaggi: sia perché la natura è di per sé creativa sia perché fornisce sollecitazioni multisensoriali.
Divertiti
Ho lasciato per ultimo un suggerimento che considero fondamentale. A volte ci preoccupiamo eccessivamente, soprattutto con i figli, di fare le cose giuste e questo ci impedisce di goderci pienamente il tempo passato insieme.
È utile ricordare che per i bambini, gli aspetti emotivi giocano un ruolo fondamentale nella percezione della realtà: la qualità dell’esperienza di un bambino è influenzata in grandissima parte dalle emozioni e dalle sensazioni che prova.
Puntare al divertimento è quasi sempre una buona scelta. Se ti diverti a giocare con tuo figlio con molta probabilità anche lui si divertirà e in questo modo passerai con lui del tempo di inestimabile valore.
Come fare? Sii creativo: ricorda che il cervello ama le novità, il ridicolo, le esagerazioni e poi… prova con il solletico! Sperimenta e trova il tuo modo unico per giocare con tuo figlio.
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Per rimanere aggiornato sugli articoli che pubblico metti mi piace sulla pagina: ad agosto ci saranno interessanti novità.
Per divertirsi:
Arendt, H, Vignoli, V. (2014). I regali della natura. Creare e divertirsi con semi, fiori, foglie, legno e tanto altro ancora. Terre di mezzo editore.
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Raccontare l’adozione a un figlio: qualche indicazione per una buona storia
Sono per fortuna lontani gli anni in cui parlare ai figli di adozione era un tabù. L’idea che non essere figlio biologico sia qualcosa da tenere nascosto è ormai stata abbandonata e, l’indicazione che viene fornita dai servizi e dagli enti è quella di parlare liberamente e da subito al proprio figlio dell’adozione.
Immagino, tuttavia, che, se sei un genitore adottivo o se aspiri a diventarlo, probabilmente anche tu ti sarai interrogato sulle modalità più funzionali per narrare a tuo figlio la sua storia.
Ecco allora alcuni suggerimenti che potrebbero tornarti utili per permetterti di affrontare questo compito in modo più sereno.
La vita è una storia da raccontare. Crea la storia della vostra famiglia.
Iniziamo col dire che noi siamo fatti di storie.
Il nostro cervello organizza le informazioni con una trama alla base e, se ci pensi, anche quando dormiamo la mente produce sogni che, non sono altro che storie.
Questo perché il cervello ha bisogno di dare un senso alle informazioni che raccoglie dall’esterno: abbiamo bisogno di senso per vivere come dell’aria per respirare. Le storie non sono altro che modi per organizzare le informazioni secondo un senso.
Raccontare al proprio figlio l’adozione ha questa funzione: porre le prime basi per lo sviluppo di una narrazione su di sé che abbia senso e a cui sia possibile aggiungere e integrare, nel corso della vita, ulteriori informazioni.
Un aspetto su cui vorrei soffermarmi è che, il racconto dell’adozione (che comprende le origini del bambino e l’incontro con la famiglia adottiva) è un processo significativo non solo per i figli ma anche per la coppia. I genitori hanno bisogno quanto i figli di creare una trama narrativa che si intrecci con quella del proprio figlio e che dia vita ad un’unica storia.
L’adozione è un nuovo capitolo di un libro già iniziato, evita di cancellare l’inizio.
In ogni storia l’inizio e la fine hanno un ruolo importante: stabiliscono il genere, il ritmo, la coerenza narrativa.
Genitori e figli adottivi hanno una storia che non inizia con il loro incontro.
Nella storia di chi viene adottato c’è sempre un abbandono, nella storia della coppia spesso c’è una sofferenza da elaborare legata all’impossibilità di avere figli biologici o alle difficoltà dell’iter adottivo, spesso lungo e faticoso.
Questo inizio che si vorrebbe comprensibilmente dimenticare o ignorare, è in realtà uno spazio carico di possibilità.
La sofferenza comune, da fardello di cui si cerca invano di sbarazzarsi, può diventare un elemento che unisce genitori e figli, mitigando quel senso di estraneità che è invece frequente nel momento in cui la famiglia adottiva si viene a creare.
In tutti i racconti all’inizio i personaggi devono superare difficoltà e peripezie prima di potersi dirigere verso il lieto fine e, anche nella storia che racconterai, puoi ricalcare questo schema.
La narrazione che farai terrà conto ovviamente dell’età del bambino, del contesto di riferimento, delle informazioni che possiedi e delle competenze emotive e cognitive di chi ascolta.
Se i tuoi figli sono grandi puoi ugualmente raccontare la storia dell’adozione soffermandoti in questo caso sulle emozioni che tu e il tuo partner avete provato, sui timori e sulle difficoltà che avete superato per la voglia di costruire la vostra famiglia.
Costruisci una trama verosimile, evita di edulcorare le informazioni e inserisci sempre una cornice positiva.
In alcuni casi le informazioni che avrai sul passato di tuo figlio saranno poche, in altri nebulose, in altri ancora particolarmente dolorose: non scoraggiarti perché puoi trovare sempre un modo per costruire una buona storia.
Ogni realtà può essere raccontata, anche se alcuni particolari del passato di tuo figlio particolarmente duri o dolorosi, (suicidi, violenze, abuso di sostanze) devono essere modificati o adattati se lui non ha ancora l’età o le competenze per comprenderli.
La cosa importante è che il senso di ciò che dici sia in linea con la verità che conosci o sia verosimile, in modo che tu non debba smentire nel tempo le versioni del tuo racconto ma solo renderle più precise (es: una mamma che faceva uso di droghe può diventare verosimilmente una mamma che non sapeva prendersi cura di sé stessa e che non riusciva quindi a curare e accudire suo figlio).
È sempre possibile costruire una narrazione che abbia una cornice positiva e a cui sia possibile nel tempo aggiungere particolari. Ricordati che l’arrivo di tuo figlio rappresenta il lieto fine e su questo puoi orientare tutto il racconto.
Evita però di edulcorare le informazioni aggiungendo dettagli positivi inventati sulle origini di tuo figlio: potrebbe scoprirlo o tu stesso potresti tradirti nel tempo.
Preparati a accettare la sofferenza, a non spaventarti e a ascoltare.
Mentre racconti o richiami il passato, tuo figlio potrebbe manifestare il suo dolore o parlartene apertamente, soprattutto se è arrivato in famiglia che già era grande e con un bagaglio di ricordi: sii preparato a rispondere alle sue domande e a accettare la sua sofferenza.
Impara a non cambiare discorso, a non sentirti in dovere di trovare una soluzione o una frase giusta.
La cosa migliore che puoi fare in questi momenti è semplicemente esserci e ascoltare: per tuo figlio l’esperienza di poter esprimere quello che prova senza censure ha un grande effetto lenitivo.
Se hai difficoltà a fare questo, rifletti sul tuo rapporto con la sofferenza e sulla possibilità che dai a te stesso di esprimerla.
Crea dei riti, usa oggetti simbolici, non stancarti di raccontare.
Ricordati che è importante raccontare, anche ai bambini più grandi o agli adolescenti, quanto siano stati desiderati e attesi.
Alcuni genitori costruiscono un libro dell’attesa in cui raccolgono foto, documenti o oggetti significativi e questo contribuisce a rendere l’adozione una sorta di “seconda nascita”.
Alcuni episodi particolarmente significativi della storia che narri possono diventare piccoli miti che si ripetono o che si raccontano anche all’esterno della famiglia ( es: quella notte non la dimenticheremo mai, abbiamo fatto entrambi un sogno su di te e la mattina seguente il giudice ci ha chiamato).
Le famiglie sono piene di queste storie che costruiscono e rendono forti i legami di chi ne fa parte.
Non stancarti di raccontare. Raccontando dai significato a un passato doloroso, rendi continuamente vivo e presente per te e per la tua famiglia il senso di una scelta e fornisci un’identità comune a tutti coloro che della famiglia fanno parte.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e se pensi possa essere di aiuto a qualcuno che conosci ti chiedo di condividerlo.
Se invece senti il bisogno di un supporto per affrontare con tuo figlio alcuni temi legati alla sua storia adottiva, contattami e sarò felice di lavorare insieme a te.
Per approfondire
Chistolini, M. (2010). La famiglia adottiva. Come accompagnarla e sostenerla. Milano. Franco Angeli.
Leggi tutto
Tuo figlio ha una buona autostima? Tre cose da sapere per poter rispondere
Molti genitori arrivano in studio portando come problema la bassa autostima dei figli e mi chiedono se sia possibile intervenire su questo.
In questo articolo voglio fare un po’ di chiarezza, spiegandoti in maniera molto semplice cosa è l’autostima, quali sono i pilastri su cui si fonda e cosa puoi fare tu per sostenere quella di tuo figlio.
La prima cosa da sapere è che l’autostima indica il valore che ciascuno di noi attribuisce a se stesso: è come se fosse un voto che ci assegniamo per tutto quello che siamo.
Ma in base a cosa esprimiamo questo giudizio su noi stessi?
I fattori sono tanti: alcuni innati altri appresi, alcuni individuali altri dipendenti dal contesto e, sebbene non ci sia un completo accordo tra gli studiosi su come si sviluppi l’autostima, è possibile identificare alcuni elementi che sembrano avere un peso determinante nella sua formazione e su cui è possibile intervenire.
Uno dei più importanti e di cui voglio parlarti oggi è l’autoefficacia.
L’autoefficacia non è altro che la convinzione di sentirsi capace di raggiungere un dato obiettivo, di svolgere uno specifico compito o di gestire particolari situazioni o emozioni.
A differenza dell’autostima, che è un concetto generale, l’autoefficacia riguarda aree specifiche su cui è più facile intervenire
Ma qual è il rapporto tra autostima e autoefficacia e perché quest’ultima è così importante?
Devi sapere che la sensazione di sentirsi capaci è uno degli ingredienti fondamentali per lo sviluppo di una buona autostima.
Per i bambini, in particolare, ci sono alcune aree di autoefficacia che sono direttamente collegate allo sviluppo dell’autostima.
Gli ambiti principali a cui devi prestare attenzione sono quattro: 1) rapporto con i genitori, 2) rapporto con gli amici, 3) rapporto con il proprio corpo, 4) risultati scolastici.
Nel rapporto con i genitori e con gli adulti in generale, un bambino si sente autoefficace quando riesce a esprimere i propri bisogni, a chiedere aiuto e contemporaneamente sviluppa un livello di autonomia in linea con la sua età.
Se vuoi favorire il senso di capacità di tuo figlio in quest’ambito è importante che tu sia capace di dare limiti e regole chiari e di farli rispettare.
Per ottenere ciò è importante curare la comunicazione e creare una relazione caratterizzata da rispetto, affetto e fiducia.
Puoi accorgerti che ci sono difficoltà in questa area quando tuo figlio nel rapporto con te e, a volte anche con altre figure adulte, non sa modulare i suoi comportamenti (è oppositivo, provocatorio), le sue emozioni (ha scatti di ira, o ti sembra inibito) o non dimostra un livello di autonomia in linea con la sua età.
Nel rapporto con gli amici , per sentirsi capace un bambino deve poter creare delle relazioni soddisfacenti in cui si sente accettato e in cui può esprimere se stesso. È importante pertanto favorire la socializzazione sia in ambito scolastico che extrascolastico, creando occasioni di incontro, soprattutto per quei bambini che hanno un temperamento più introverso.
Puoi accorgerti che ci sono problemi in questa area se tuo figlio dimostra difficoltà ad entrare in relazione, se non riesce ad integrarsi nel gruppo dei coetanei, se viene cercato poco dai compagni, o se predilige l’interazione con gli adulti.
E veniamo ora al rapporto con il proprio corpo, che è un fattore spesso poco curato e a cui non si presta la dovuta attenzione. L’immagine corporea è un aspetto fondamentale del sé e, spesso, sentirsi inadeguati o incapaci di utilizzare il proprio corpo (goffi, maldestri) è un fattore di vulnerabilità.
È importante, pertanto, curare sin dalla tenera età l’alimentazione dei propri figli in modo da mantenerli normopeso e in salute. Sento molti genitori dire “poi dimagrirà con lo sviluppo”, ma questo è un grande errore perché il sovrappeso oltre a nuocere a livello fisico contribuisce a creare un’immagine di inadeguatezza che i bambini fanno difficoltà ad abbandonare.
Per favorire lo sviluppo di una buona immagine corporea lo sport può essere di grande aiuto, perché favorisce il senso di capacità e di competenza oltre ad essere un allenamento alla fatica e alla perseveranza.
Spesso è difficile riconoscere precocemente i disagi nell’area dell’immagine corporea per cui la migliore cosa che puoi fare è eliminare i fattori di rischio, facendo fare sport a tuo figlio da due a tre volte a settimana e prestando attenzione al suo peso corporeo.
Ho lasciato per ultimi i risultati scolastici perché meritano il giusto approfondimento.
La scuola è uno dei primi ambiti in cui i bambini vengono valutati su una prestazione.
Sentirsi capaci di affrontare i compiti e le attività che vengono loro proposti influenza positivamente l’impegno, il rendimento e la soddisfazione personale.
Con questo non voglio dire che tuo figlio deve essere il primo della classe ma soltanto che è importante dare il giusto valore a quei compiti quotidiani che rappresentano i suoi primi doveri.
Puoi aiutare tuo figlio sostenendolo all’inizio e poi incentivando progressivamente la sua autonomia.
Puoi accorgerti che ci sono problemi in questa area se tuo figlio mostra difficoltà generalizzate, se comincia a sviluppare un senso di incapacità verso i compiti o se sviluppa problemi fisici (nausea, mal di pancia) quando deve andare a scuola.
Per finire voglio darti un ultimo suggerimento che puoi mettere in pratica da subito.
Se c’è una verità incontrovertibile sull’autostima è che, quest’ultima, come sostiene lo psicologo Giorno Nardone, non si eredità ma si conquista quotidianamente.
La cosa più importante, pertanto, che puoi fare per tuo figlio è facilitare questo processo quotidiano di conquista.
Quello che ti consiglio di fare è di cominciare con una piccola azione o meglio con una omissione: evita l’aiuto non richiesto.
Lascia che tuo figlio si sperimenti, che sbagli, che si confronti con le difficoltà e che impari che le può superare e che, anche quando non ci riesce, … non è la fine del mondo!
Evita di intervenire perché pensi che lui non sia in grado o perché vuoi evitargli delle sofferenze, offrigli il tuo aiuto solo se è lui a chiederlo.
Se aiuti sempre tuo figlio, lui penserà di non essere in grado e questa credenza non facilita certo lo sviluppo dell’autostima.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e, se pensi che possa essere di aiuto a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se invece credi che tuo figlio abbia delle difficoltà e vuoi un consulto, non esitare a contattarmi: puoi inviarmi un sms o scrivermi direttamente dal sito.
Per approfondire
Bujon, S, Einfalt, L. (2014). Educare i bambini e gli adolescenti all’autonomia, per aiutarli a crescere sereni e sicuri di sè. Red Edizioni
Leggi tutto

Tuo figlio è timido? Tre indicazioni da mettere subito in pratica
“Mio figlio è timido”. Questa è una frase ricorrente nei colloqui di consulenza e uno dei motivi per cui i genitori chiedono un aiuto specialistico.
La timidezza di un figlio è vissuta generalmente con ansia perché viene considerata un sicuro predittore di problemi non solo nell’infanzia ma anche nella vita adulta.
I segnali della “timidezza” vengono rilevati per lo più alla scuola materna ma è nei primi anni delle elementari che i genitori cominciano ad allarmarsi, temendo che le caratteristiche del proprio figlio possano incidere negativamente sui risultati scolastici.
Ecco allora tre spunti su cui riflettere uniti ad alcune indicazioni pratiche da sperimentare subito con tuo figlio.
Esplora il significato della parola timidezza e identifica la tua posizione rispetto ad essa.
Per iniziare poniti alcune domande.
Cosa vuol dire per te “essere timidi”? Quali sono le caratteristiche che associ alla timidezza? Sono positive o negative?
Quali sono i comportamenti che tuo figlio agisce e quelli che invece non mette in atto a causa della sua timidezza? Compilane un elenco dettagliato e prova a chiederti “in che modo questi comportamenti rappresentano un problema per mio figlio”?
Questo passaggio è fondamentale perché può servire a renderti conto che, in alcuni casi, quella che definiamo timidezza è semplicemente un modo diverso di stare nelle situazioni e nei contesti sociali, derivante da un approccio alla realtà più osservativo e riflessivo, che predilige lo spazio del pensiero rispetto a quello dell’azione.
Se questa modalità di stare al mondo non limita il tuo bambino ma rende solo i suoi tempi diversi da quelli di alcuni suoi coetanei , non c’è motivo di allarmarsi né di spingerlo a modificare il suo atteggiamento.
Può esserti di aiuto prenderti del tempo per riflettere e identificare cosa ti spaventa di più dei comportamenti di tuo figlio. Ci rivedi tue difficoltà? Sei stato anche tu un bambino timido e questo ti ha fatto sentire inadeguato? Oppure sei una persona estroversa e socievole e, per questo, non riesci a comprendere e gestire alcune reazioni di tuo figlio, che a volte ti infastidiscono o ti mettono in imbarazzo?
Ricordati che le somiglianze possono portarti con facilità a identificarti con tuo figlio e a scambiare i tuoi bisogni con i suoi, mentre le differenze rischiano di farti provare un senso di estraneità, allontanandoti da tuo figlio e impedendoti di cogliere le sue necessità.
Prepara il campo e evita di evitare.
Un bambino timido è quasi sempre un bambino che ha bisogno di tempi più lunghi per ambientarsi, fidarsi, esporsi, fare amicizia. Deve osservare e studiare prima di passare all’azione e non ama generalmente gli imprevisti. Può essere utile allora, in tutti quei casi in cui tuo figlio deve affrontare situazioni nuove, anticipargli verbalmente, sotto forma di racconto, lo scenario che si troverà a vivere. Quello che puoi fare è descrivere in anticipo la situazione, colorandola di particolari e rendendola così più prevedibile; in questo modo lo prepari mentalmente facilitando il suo “ambientamento”.
Può accadere in ogni caso che tuo figlio non saluti gli estranei, che si rifiuti inizialmente di giocare con bambini che non conosce o che abbia difficoltà a staccarsi da te.
Evita di etichettare il suo modo di essere, di giustificarlo di fronte agli altri (sai lui è un po’ timido, si vergogna per questo non saluta), di spingerlo all’azione (su, saluta lo zio, non essere maleducato; non stare attaccato a me vai a giocare con i compagni) e, soprattutto, evita di evitare le situazioni espositive per paura di metterlo in difficoltà o perché tu stesso provi imbarazzo per il suo comportamento.
Più tuo figlio percepirà che vivi i suoi comportamenti come problematici più lui stesso sentirà di avere un problema e di essere inadeguato.
Allena la capacità di entrare in relazione.
Le persone timide, diversamente da quello che il senso comune spinge a credere, hanno generalmente buone competenze relazionali: ascoltano con interesse, colgono i dettagli e le sfumature, sono molto empatiche. Quello che faticano a fare non è stare in relazione quanto piuttosto rompere il ghiaccio per entrare in relazione.
E’ per questo che quando la timidezza compromette la capacità di entrare in relazione e porta all’isolamento diventa un problema.
Comportati pertanto con tuo figlio come se fossi un allenatore e aiutalo a sviluppare la capacità di entrare in relazione.
Crea per tuo figlio occasioni di socializzazione, dapprima con pochi bimbi poi in gruppo: invita amici a casa, portalo al parco, fagli fare sport , iscrivilo agli scout.
Soprattutto se tuo figlio è in età prescolare, è probabile che tu debba affiancarlo e aiutarlo a rompere il ghiaccio standogli vicino.: impara a essere per lui un supporto solido e un ancora di sicurezza, senza però sostituirti a lui né forzarlo.
Rispetta i suoi tempi e non spazientirti di fronte alle sue esitazioni. Se sarai costante vedrai che con gradualità e con i suoi modi, imparerà a stare con gli altri bambini e ad integrarsi.
Spero che queste indicazioni ti siano state utili e, se pensi che possano aiutare qualcuno che conosci, ti chiedo di condividere questo articolo.
Se ti accorgi che tuo figlio ha difficoltà legate alla timidezza che permangono nel tempo, che si presentano in diversi contesti (casa, scuola, sport) e che non riesci a gestire, allora chiedi un aiuto specialistico: un intervento tempestivo in questi casi evita che i problemi si trasformino in disturbi psicologici.
PER APPROFONDIRE
Zimbardo, P.G., Shirley, L. (2008). Il bambino timido. Comprendere e aiutare a superare le difficoltà personali. Erickson. Trento.
Cain, S. (2017). Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare. Bompiani. Roma
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Il ruolo dei nonni in famiglia: indicazioni ai genitori per vivere in pace e contenti
I nonni sono delle risorse importanti per le famiglie con figli.
L’aiuto che danno in alcuni casi è quotidiano, in altri è limitato alle situazioni di emergenza, ma rappresenta spesso un elemento insostituibile nell’organizzazione familiare.
Capita frequentemente, tuttavia, di assistere a attriti, divergenze, schermaglie più o meno esplicite tra la famiglia di origine e i neogenitori su aspetti che riguardano la gestione o l’educazione dei nipoti. La situazione può degenerare quando le dinamiche disfunzionali instauratesi arrivano ad avvelenare il clima familiare.
Oggi voglio darti alcune indicazioni che, sulla base della mia esperienza, possono risultare utili per facilitare i rapporti tra le famiglie e mantenere relazioni serene.
Definisci le regole, delimita le eccezioni, sii indulgente
So che ti piacerebbe che le persone a cui affidi tuo figlio fossero completamente allineate con te in termini di comportamenti, valori e abitudini, ma quasi mai è così. Non si tratta solo di distanza “generazionale” ma di percorsi di vita diversi o contesti culturali lontani.
Le differenze rispetto ai tuoi genitori o a quelli del tuo partner possono essere macroscopiche o sfumate ma capisco che ti facciano arrabbiare quando si traducono in atteggiamenti e comportamenti verso tuo figlio che non approvi (fissazioni sul cibo, eccessivo lassismo, commenti spiacevoli, metodi educativi non proprio ortodossi).
Devi sapere, tuttavia, che il tempo passato con i nonni, a meno che non sia particolarmente lungo ed esclusivo, non incide in maniera significativa sull’educazione di tuo figlio. Tu e il tuo partner rimanete le principali figure di riferimento e sono le vostre abitudini, le vostre regole i vostri valori che verranno trasmessi a tuo figlio.
Evita, pertanto, di biasimare o stigmatizzare il comportamento dei tuoi genitori o dei tuoi suoceri (finirai quasi sempre per farli arroccare ancora di più sulle loro posizioni) e sii indulgente rispetto alle loro differenze, quasi mai faranno la differenza con tuo figlio.
Definisci invece in modo chiaro come eccezioni quei comportamenti che non condividi “la nutella si mangia solo a casa di nonna, a casa nostra la merenda si fa con la frutta”, o ancora “i compiti li fai da solo, se nonna ti aiuta pazienza, quando sei a casa mamma e papà controllano solo quando hai finito”.
Mostra la tua preoccupazione, chiedi comportamenti specifici, trova un’alternativa
Se tuo figlio passa molto tempo con i nonni o se alcune loro abitudini comportamenti possono essere dannose per la sua crescita, allora provare a cambiare i comportamenti dei tuoi genitori o dei tuoi suoceri può diventare una necessità.
Per riuscire in questo intento evita di sostenere la tua causa con mille argomentazioni e facendo leva sulla ragione, mostra piuttosto la tua preoccupazione “sono in ansia perché il pediatra mi ha detto che Luca è in sovrappeso e questo non è buono per la sua salute e inoltre a scuola cominciano a prenderlo in giro”; “siamo preoccupati perché Luca è sempre meno autonomo nei compiti, tutti i suoi compagni li fanno da soli e lui è rimasto molto indietro”.
Chiedi specificatamente sotto forma di aiuto il comportamento che vorresti che i tuoi genitori o i tuoi suoceri avessero con tuo figlio “potreste aiutarci a fargli seguire la dieta che il pediatra ci ha indicato, ci dareste un grande aiuto?” “potreste aiutarci a renderlo più autonomo, controllando i suoi compiti solo alla fine, sarebbe davvero importante per noi?”.
Per quanto ti possa sembrare strano un giusto tono e una sincera richiesta di aiuto possono risultare molto potenti: i genitori non sanno resistere alla tentazione di aiutare i loro figli in difficoltà!
Se, tuttavia, le posizioni sono inconciliabili e pensi che il modo di vivere e le abitudini dei tuoi suoceri o dei tuoi genitori siano per tuo figlio deleterie, trova un’altra alternativa e riduci il tempo che tuo figlio passa con loro.
Se non riesci a cambiare l’ambiente in cui tuo figlio deve stare, fagli cambiare ambiente: cerca una baby sitter, organizzati con altri genitori, esci prima dall’ufficio, insomma trova una soluzione che non contempli la presenza prolungata ed esclusiva dei nonni.
Evita i confronti, non criticare, costruisci ricordi
Capita che i genitori ingaggino tra loro delle lunghe contese per stabilire la frequenza con cui i figli devono vedere i nonni paterni o materni. Spesso nascono delle e vere e proprie gelosie, di cui i bambini soffrono molto. Evita di cadere in questa trappola, facendo confronti tra il rapporto che tuo figlio ha con i tuoi genitori o con i tuoi suoceri e fai in modo che passi del tempo con entrambi, senza colpevolizzarlo se sembra prediligere la compagnia di un nonno o una nonna che considera speciale. Astieniti dal criticare i nonni o dall’ evidenziare i loro difetti e lascia pure che tuo figlio li idealizzi un po’.
Purtroppo a causa dell’età sempre più avanzata in cui le coppie diventano genitori, il tempo che i nonni passano con i loro nipoti è diminuito molto. Ciò nonostante il tempo trascorso con i nonni continua ad essere considerato come il tempo della spensieratezza e dell’amore incondizionato.
Se sei fortunato e tuo figlio può ancora godere della compagnia dei suoi nonni, lasciagli lo spazio e il tempo per costruire con loro dei ricordi.
Lo sguardo dei nonni, il modo in cui viziano i nipoti e si prendono cura di loro sono un conto aperto nella banca dell’amore, a cui poter attingere nel corso della vita: fai in modo che anche tuo figlio possa goderne.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e se pensi possa interessare a qualcuno che conosci, ti chiedo di condividerlo.
Se hai delle difficoltà a gestire i rapporti con la tua famiglia di origine o con i tuoi suoceri, contattami e lavoreremo insieme per costruire un nuovo equilibrio funzionale.
PER APPROFONDIRE
Lusso, V. C, (2014). Genitori e nonni: alleati o rivali? Erickson. Trento.
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Hai un figlio preadolescente? Cinque cose che devi sapere
La preadolescenza è una fase del ciclo di vita collocabile tra i dieci e i quattordici anni, che coincide con la pubertà.
Questa definizione, tuttavia, è orientativa perché spesso, soprattutto nel caso delle bambine, l’ingresso nella preadolescenza può avvenire anche prima.
Se chiedessimo ad un genitore che cosa è la preadolescenza probabilmente ci risponderebbe che è quella fase in cui il proprio figlio diventa irriconoscibile: comportamenti, atteggiamenti, frasi, abitudini cambiano e sembra di avere in casa un alieno venuto da Marte.
Se chiedessimo, invece, ad un ragazzo che cosa è la preadolescenza ci direbbe che è quella fase in cui i genitori diventano insopportabili: quello che mamma e papà dicono, i divieti che mettono, le regole che pretendono di far seguire sono ostacoli che impediscono l’esercizio di un’agognata libertà.
Il minimo comune denominatore tra queste due posizioni è che, sia per i genitori che per i figli, la preadolescenza è faticosissima: è richiesta una grande quantità di energia, sia fisica che mentale, per far fronte alle sfide, alle richieste, alle negoziazioni, ai compiti evolutivi tipici di questo periodo
La preadolescenza precede l’adolescenza e se ne differenzia.
Nell’adolescenza i ragazzi scompaiono: i loro interessi si spostano fuori casa, l’esterno diventa il luogo più desiderato mentre le mura familiari sono sempre meno abitate. Aumentano i comportamenti di chiusura e isolamento nei confronti dei genitori.
La preadolescenza è diversa: inizia da parte dei ragazzi la ricerca dell’autonomia e contemporaneamente iniziano gli scontri con mamma e papà. La casa si trasforma in un piccolo ring: discussioni, negoziazioni, scenate di rabbia, provocazioni. In tutto questo c’è un aspetto positivo che un genitore non deve ignorare: il figlio è ancora presente e, seppur faticosamente e in modo tumultuoso, ricerca la relazione.
È per questo che la preadolescenza è il momento propizio per stare accanto ai ragazzi, aiutandoli a sviluppare una serie di risorse e capacità che li aiuteranno a percorrere la strada verso l’età adulta.
Stare accanto ad un preadolescente richiede un cambio di mentalità.
Nell’infanzia il compito principale di un genitore è legato alla cura e alla protezione. A partire da una certa età a questo a compito ne va affiancato un altro: promuovere la separazione e incentivare l’autonomia in ambiti sempre più ampi.
Questo richiede ai genitori di cambiare sguardo e cominciare a vedere il proprio figlio non più come un pulcino da proteggere ma come un tigrotto da allenare alla vita.
Emotivamente è un passaggio complesso e non sempre indolore: significa sapere osservare il proprio figlio che prova, sbaglia, fallisce, soffre e riuscire a non intervenire, lasciandogli sperimentare la responsabilità che ogni nuovo potere di azione comporta.
Se hai stabilito, ad esempio, che la gestione dei compiti a casa è in capo a tuo figlio, le eventuali dimenticanze saranno una sua esclusiva responsabilità. Questo vuol dire riuscire a sopportare che tuo figlio vada a scuola impreparato o senza aver finito i compiti, sperimentando in prima persona le conseguenze delle sue azioni.
Ricordati che attribuire potere a tuo figlio senza dargli anche la responsabilità che l’esercizio del potere comporta, significa farlo vivere nel privilegio e soprattutto rimandargli un’immagine falsata di quella che è la vita.
Saper giocare al “tiro alla fune” è una competenza da sviluppare per stare accanto a un figlio.
Come spiega molto bene il medico e psicoterapeuta Alberto Pellai, che ha dedicato numerosi libri alla preadolescenza, favorire l’autonomia di un figlio significa giocare con lui al “tiro alla fune”. In questo gioco ogni squadra tira dalla propria parte e vince chi riesce a guadagnare terreno. Tu e tuo figlio per la prima volta siete in squadre differenti e il tuo compito è quello di calibrare bene la forza in questo gioco.
Devi lasciargli un po’ di terreno, devi fargli guadagnare qualche passo, deve sentire che può gestire un po’ di potere. Allo stesso tempo non puoi lasciare andare completamente la corda perché a questa età tuo figlio non è ancora libero di gestire spazi di autonomia sconfinati e deve sentire che la cornice delle regole viene definita ancora da te.
Devi evitare, tuttavia, anche il comportamento opposto e cioè quello di tirare la fune troppo forte e non concedere nessuno spazio. I rischi che corri in quest’ultima ipotesi sono due: potresti iniziare una lotta simmetrica e crescente che porta tuo figlio a tirare ancora più forte sino rompere con te o a chiudersi nel suo risentimento e nella sua rabbia; oppure, al contrario, tuo figlio potrebbe perdere fiducia in sé stesso e smettere di tirare, aderendo alle tue condizioni e alle tue regole. In questi casi spesso la ribellione viene sedata solo apparentemente e risulta invece posticipata in fasi più avanzate del ciclo di vita, in cui diventa altamente disfunzionale.
La preadolescenza ha bisogno di modelli autorevoli: coltiva la calma.
Ciò che fa la differenza e che consente ad un genitore di rimanere punto di riferimento nelle turbolenze e nelle ribellioni, che accompagnano la crescita di un figlio, è la sua autorevolezza.
L’autorevolezza dipende da una molteplicità di fattori ma tra tutti la capacità di mantenere la calma e non perdere il controllo è fondamentale.
In preadolescenza i ragazzi vivono sulle montagne russe: cambiano umore continuamente, passano velocemente dalla rabbia alla tristezza e, soprattutto, “sentono” più che pensare. Il loro cervello emotivo è nella fase del massimo sviluppo mentre la parte cognitiva ancora non è pienamente matura.
In questa fase i genitori devono saper contenere quelle emozioni che i ragazzi fanno fatica a gestire.
Questo vuol dire sapere essere fermi e, se serve, inflessibili senza cedere alle provocazioni e senza farsi trascinare dagli atteggiamenti sopra le righe dei propri figli.
Se ti capita spesso di urlare, di fare scenate, di perdere le staffe ti consiglio di provare a modificare questo tuo comportamento.
Prova a concentrarti sul tono della voce, la sua modulazione infatti è un potente regolatore emotivo. Se eviti di cedere all’abitudine di urlare, col tempo ti sentirai sempre più sicuro e meno in balia delle emozioni.
Se, invece, rimanere calmo è per te difficile, abbandona il campo non appena senti che la tua pazienza è arrivata al limite. Puoi dichiarare a tuo figlio “Sei troppo arrabbiato, parleremo quando ti sarai calmato”.
Gestire efficacemente queste situazioni ad alto contenuto emotivo ti conferisce autorevolezza e insegna a tuo figlio il valore dell’autocontrollo.
Spero che questo articolo ti sia stato utile e se pensi possa essere di aiuto a qualcuno che conosci ti chiedo di condividerlo.
Se hai bisogno di un supporto per gestire il rapporto con tuo figlio preadolescente chiamami e sarò felice di lavorare con te su questo.
PER APPROFONDIRE
Pellai A., Tamborini B., (2017) L’età dello Tsunami, Milano, DeAgostini.
Ciacci S., Giannini S., (2007) Accompagnare gli adolescenti, Trento, Erickson
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