
Quando i figli non somigliano ai genitori. Tre lezioni imparate dalle famiglie adottive.
Se vi capita di interagire con una coppia alle prese con un neonato vedrete che dai primi istanti di vita, l’argomento più frequente che monopolizza le conversazioni di parenti e amici è quello della somiglianza.
“A chi somiglia?” è questa la fatidica domanda a cui bisogna rispondere con molta cautela e poca sincerità per evitare di essere considerati scortesi o peggio di offendere qualcuno.
La somiglianza che si ricerca all’inizio è quella fisica ma crescendo ci si concentra sulle similitudini caratteriali, tanto che quando i figli mostrano comportamenti o inclinazioni lontane dal modo di essere dei genitori spesso si rimane disorientati.
I genitori adottivi sono più abituati a fare i conti con le differenze: è un tema con cui devono confrontarsi sin dal arrivo in famiglia dei loro figli.
Ciò nonostante anche nelle famiglie adottive si sottolinea con giusto orgoglio il fatto che i figli abbiano movenze, atteggiamenti, caratteri simili a quelli dei loro genitori, in virtù di una sorta di genetica secondaria che plasma coloro che vivono insieme. Sottolineare le somiglianze all’interno di una famiglia è un importante collante, ma valorizzare le differenze rimane un punto di forza capace di mobilitare risorse straordinarie.
Lavorando con le famiglie adottive capita di osservare bambini i cui corpi e volti non portano “i segni” di mamma e papà ma all’interno delle quali si costruisce un legame che fonda su altro la propria forza.
È proprio osservando la forza di questi legami che ho imparato alcune cose sulla diversità che oggi voglio condividere.
Quando i figli non somigliano ai genitori, la famiglia può imparare a valorizzare le differenze trasformandole in un’occasione di crescita collettiva.
La diversità ci parla di noi più che dell’altro.
La differenza caratteriale, di temperamento, somatica, ci parla di qualcosa che non comprendiamo fino in fondo e che spesso facciamo fatica ad accettare. Comportamenti molto lontani dal nostro modo di essere ci lasciano spiazzati e disorientati perché ci fanno vedere ciò che non siamo, ci obbligano a fare i conti con parti di mondo che non abbiamo esplorato.
Davanti al nuovo possiamo allontanarci dall’altro e rifugiarci nel conosciuto, oppure possiamo chiederci cosa dice di noi la diversità con cui ci stiamo confrontando.
Siamo ordinati, composti, metodici e l’esuberanza e l’essere fuori dalle righe di nostro figlio ci lasciano interdetti? Ci troviamo in difficoltà a rispettare quel muro invalicabile di silenzio e chiusura con cui spesso nostro figlio si difende? Siamo energici e sportivi e l’ indolenza di nostro figlio ci infastidisce? Gli esempi possono essere infiniti.
Non comprendere l’altro ci sfida a conoscere qualcosa di più su noi stessi e su quello che non abbiamo scelto, voluto o potuto essere.
La diversità ci obbliga a cambiare i nostri piani e aumenta le sorprese della vita
I figli sono potenti generatori di aspettative, di piani, di progetti. Alcuni dicono che sono la scusa per continuare a progettare anche quando l’età e le forze non consiglierebbero di farlo.
Questo è un potente carburante, una fonte di energia, che però può trasformarsi in una zavorra quando ciò che avevamo progettato si scontra con una diversa realtà.
Figli con inclinazioni, desideri, doti singolari a volte fanno rocambolesche inversioni a U rispetto alla strada che i genitori avevano immaginato. Rimanere focalizzati su se stessi in questo caso vuol dire lasciar spazio alla delusione, farsi invadere da un senso di estraneità, rinunciare alla comprensione. Cambiare piani vuol dire riuscire a rimanere parte attiva nella vita dei figli e continuare a fare un sincero tifo per loro anche se non comprendiamo la partita che hanno scelto di giocare.
Cambiare piani vuol dire imparare a godersi il viaggio, accettando di rimanere sorpresi da quello che troveremo dietro l’angolo.
La diversità ci obbliga a riflettere sul senso di esclusione.
Similes cum similibus recitavano i latini, consigliando alle persone simili di vivere insieme.
La diversità infatti può generare esclusione, può far sentire diversi, inadatti, non all’altezza.
Questo avviene quanto più le caratteristiche che ci appartengono sono minoritarie all’interno del posto in cui viviamo o del gruppo in cui siamo inseriti.
Possiamo essere diversi per il colore della pelle, per la nazionalità, per un difetto fisico, per un orientamento sessuale o per una caratteristica personale.
Un papà adottivo mi ha raccontato che riusciva a comprendere benissimo il senso di esclusione provato dal figlio a scuola, pensando a come, per tanto tempo, lui stesso e sua moglie si erano sentiti genitori diversi.
Tutti noi abbiamo provato seppur per poco la sensazione di sentirsi esclusi da qualcosa o da qualcuno e dovremmo abituarci a richiamare questo ricordo per creare, soprattutto in famiglia, un ambiente in cui ciascuno possa sentirsi nel posto giusto.
La diversità ci ricorda che per sintonizzarsi con l’altro non dobbiamo essere uguali
Siamo equipaggiati per comprendere e relazionarci con chi è diverso da noi. Non è un caso che le emozioni di base (paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa) siano le stesse ad ogni latitudine e longitudine della terra e si manifestino con segni non verbali comuni in tutti i popoli, razze e culture.
Come a dire che al di là del pensiero gli esseri umani sono legati tra loro dalle emozioni che provano.
Soprattutto nelle incomprensioni e nei momenti di distanza, cercare le emozioni nei volti dei figli più che risposte o spiegazioni può aiutarci a riallacciare quel legame che spesso le differenze mettono a dura prova.
Spero che questo articolo ti sia piaciuto e ti invito a condividerlo se, anche tu, pensi che essere diversi aumenti le infinite possibilità dell’essere umani.
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